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Impronunciabilità (di Paola Carini)
1.04.2005

Ogni qual volta un popolo ne conquista un altro, ogni qual volta un’etnia domina sulle altre, chi detiene il potere si sbizzarrisce con la toponomastica, ridisegna la geografia, (ri)nomina monti, fiumi, paesi, città declinandoli nelle forme della propria lingua, della propria religione o della propria ideologia. L’atto ha un duplice fine: il potere consolida sé stesso ribadendo con arroganza la propria superiorità e, riorganizzando il territorio conquistato secondo le proprie categorie, ha la garanzia di averne maggiore comprensione e quindi controllo. Pensiamo all’America: solamente dopo Colombo e Vespucci quel continente enorme, popolato da una miriade di culture diverse, divenne l’America. Prima, quel mondo era definito dalla conoscenza minuziosa del territorio da parte di chi lo abitava, non certo da un unico nome sia per il Nord subartico che per la Terra del Fuoco.

Ma (ri)nominare i luoghi non è che il preambolo di una serie di azioni che il potere, conquistatore o colonizzatore che dir si voglia, esercita per riaffermare sé stesso. Esso impiega altri strumenti per assoggettare definitivamente un luogo e la sua gente: adducendo motivi di impronunciabilità, rinomina anche gli abitanti.

La Storia è zeppa di esempi di imposizione di nomi (o meglio cognomi) alla popolazione. I regimi totalitari – come ad esempio la dittatura fascista che ingiunse l’italianizzazione dei cognomi – avevano intenti diversi da quelli degli stati moderni. Semplificando, nel primo caso il fine è il dominio assoluto sui sudditi, nel secondo è la creazione dell’identità legale per ciascuno, dato che ognuno è cittadino, come aveva insegnato la Rivoluzione Francese. Se nelle Filippine occupate dagli spagnoli il governatore Narciso Claveria y Zaldua impose l’uso di cognomi (spagnoli) a tutti (gli uomini) nel 1850, nell’Europa della stessa epoca il cognome, immutabile ed ereditato dal padre, era oramai cosa affermata. Agli inizi dell’Ottocento praticamente tutti gli europei avevano cognomi, o meglio patronimici, tranne gli askenaziti, gli ebrei nomadi dell’Europa centrale e settentrionale. Anche a loro venne imposto l’uso del cognome per ottenere la cittadinanza (in Prussia vennero obbligati ad accettare quelli scelti per loro dallo stato), ma esso divenne segno di distinzione religiosa, con tutte le conseguenze nefaste che si ebbero nel Ventesimo secolo. Paradossalmente, dalle maglie della colonizzazione iberica sfuggirono in parecchi che scelsero cognomi in lingua locale mentre, a causa del cognome "tipicamente ebraico", sei milioni di persone non sfuggirono agli ingranaggi della macchina dello sterminio nazista. Nell’Europa contemporanea solo in uno stato, l’Islanda, non è tassativo l’uso del cognome, a riprova che si vive benissimo – burocraticamente e giuridicamente – anche senza. Laggiù l’identità è imprescindibile dalla conoscenza perfetta di coloro dai quali si discende, sia per parte materna che paterna, da almeno cinque generazioni.

Nella Storia dell’invasione e della colonizzazione del continente americano l’imposizione del nome è, stranamente, un fatto recente. Prima arrivò la topografia rettangolare, razionale, logica, che servì a squadrare milioni di acri di territorio affinché si potesse contabilizzarlo e venderlo ai coloni. Fino a quel momento importava poco identificare gli abitanti autoctoni a cui quella terra veniva sistematicamente sottratta; bastava chiamarli col generico nome di "indiani", tutt’al più anglicizzare il nome della tribù, o magari dare un nome come Joe a quelli con cui si commerciava. In fin dei conti erano loro i vinti.

Poi, quando anche l’ovest si rimpicciolì e gli acri rimasti erano solo quelli delle riserve, il General Allottment Act, o Dawes Act del 1887, permise al governo americano di parcellizzare la terra delle riserve e assegnarne 160 acri a ciascun membro della tribù. Ovviamente il trucco c’era: oltre a scardinare un sistema sociale che si reggeva sulla proprietà comune e non sulla proprietà privata, la terra che avanzava dopo l’assegnazione sarebbe stata parecchia. E così altri acri ottenuti come surplus si poterono vendere ad un prezzo molto, molto conveniente, ma per fare le cose con la dovuta precisione contabile senza lasciarsi sfuggire un solo metro quadro che non fosse necessario, si doveva poter identificare con il massimo grado di accuratezza ogni indiano (maschio) a cui spettava l’appezzamento parcellizzato.

Fino ad allora l’identificazione individuale dei nativo americani non era mai stata posta come questione. Dal punto di vista dei colonizzatori non c’era necessità di censire la loro presenza: gli "indiani", dopotutto, secondo la retorica ottocentesca erano la "razza" che stava scomparendo, vuoi per morte, vuoi per assimilazione. Chi sopravviveva sarebbe diventato un buon coltivatore, e il selvaggio che c’era in lui o in lei sarebbe stato soppiantato dal cristiano timorato di Dio.

Quando si pose il problema del censimento dei membri tribali, i colonizzatori si ritrovarono davanti a complessi sistemi di attribuzione del nome che variavano da tribù a tribù: non esisteva il concetto del "cum nomen" per cui era solo il nome, o più spesso i nomi, ad identificare il singolo. Essi però mutavano a seconda di riti, circostanze, avvenimenti e spesso non esprimevano alcuna differenziazione di sesso. Per gli "indiani" il nome era adeguato e l’identità certa e riconoscibile; per chi lo registrava – il responsabile militare del forte, il missionario, l’impiegato civile – il problema era sempre lo stesso: l’impronunciabilità, oltre che l’incomprensibilità. Uno stesso nome poteva risultare completamente diverso a seconda se ne era tradotto il significato o se era stato tradotto foneticamente. Non esistevano regole per nessuna di queste operazioni, per cui il risultato era penosamente avvilente. Per gli anglofoni quei nomi erano comunque un caos, per i nativo americani un nome che non riconoscevano. Ma per legalizzare la frode del Dawes Act bisognava legalizzare celermente l’identità degli "indiani": nacque così l’Indian Renaming Project, che non solo attribuiva sistematicamente i cognomi, ma anche i nomi propri. Da un giorno all’altro, all’atto della registrazione in un forte o nei collegi per ragazzi indiani, una persona di origini autoctone si ritrovava ad avere una nuova identità. Chi era così fortunato ad avere un nome che non era difficile da pronunciare per gli americani bianchi poteva tenerselo come cognome, purché fosse, nelle parole del poeta Hamlin Garland, "decente e ragionevole". Gli altri sarebbero stati tradotti, accorciati, o anche modificati, in virtù della pronunciabilità e della chiarezza. Per tutti, ci fu la sovrapposizione dell’identità legale – il patronimico – a quella tribale con il conseguente inceppamento sociale, dal momento che l’appartenenza al clan e la posizione sociale erano tradizionalmente ereditate o determinate dalla madre. La matrilinearità scomparve e venne sostituita dalla patrilinearità e da rapporti parentali di tradizione cristiana. Le strutture che regolavano armonicamente un mondo estremamente articolato nei rapporti umani vennero smantellate, scardinate, rese inservibili, e le persone offese e annientate nella loro identità. Ma questo non fu che il preludio.

Col passare del tempo la legislazione americana prese altre misure per assicurarsi che la conta degli "indiani" diminuisse e la terra loro assegnata, con le insospettabili riserve di petrolio, gas naturale, carbone, fosse resa vacante. L’Indian Reorganization Act del 1934 permise al Bureau of Indian Affairs di imporre il modello di governo tribale da adottare ma, cosa ben più importante, diede un corpus di leggi alle tribù (una vera e propria costituzione) affinché sulla base di esso si decidesse chi era e chi non era "indiano" e a chi, dunque, spettavano i benefici dovuti. La trovata era geniale: a seconda della quantità di sangue indiano nelle vene una persona era (è) riconosciuta come membro della tribù oppure o no. Il minimo richiesto è, tuttora, un quarto di sangue indiano.

Altri furono i parametri inamovibili stabiliti dal governo federale per il riconoscimento dell’appartenenza ad una singola tribù (non più d’una, anche se gli avi erano tutti nativo americani pur provenendo da tribù diverse): l’iscrizione degli antenati agli elenchi dei censimenti di fine Ottocento gestiti da personale non-indiano e il censimento nazionale moderno, ma il sangue "indiano" rimane l’elemento imprescindibile, ottenuto calcolando quante generazioni dell’individuo sono "indiane" e dividendole per il numero di matrimoni interrazziali. Se un uomo o una donna è per 7/8 "indiano", il discriminante è in realtà quell’ 1/8 di sangue bianco, perché col passare delle generazioni e l’alta probabilità di unioni miste, i discendenti di quell’uomo o di quella donna diverranno, agli occhi della legge, progressivamente bianchi.

La storica Patricia Nelson Limerick ha così riassunto lo scopo che giace dietro questo assurdo requisito: se essere "indiano" dipende dall’avere almeno un quarto di sangue "indiano", e se le leggi obbligano o "incoraggiano caldamente" gli indiani a lasciare le riserve e a vivere in città (come fecero le politiche di Relocation dagli anni Cinquanta fino agli anni Ottanta del Novecento) allora con l’avvicendamento delle generazioni il "persistente problema indiano" sparirà.

Il calcolo del sangue "indiano" cancella inesorabilmente tutti gli altri elementi che concorrono a comporre l’identità di una persona e la sua appartenenza ad una cultura specifica, cancellando al contempo ogni principio di autodeterminazione delle tribù, le quali non possono autonomamente, secondo criteri tradizionali, stabilire chi siano i loro membri. In questo modo, aspettando pazientemente, verrà meno anche la necessità di pronunciamento sul numero degli abitanti del continente prima dell’arrivo di Colombo. Per molti storici sono cifre impronunciabili perché, per quanto siano approssimative, danno sempre l’idea dell’enormità del genocidio compiuto in cinquecento anni di Storia. Sono talmente impronunciabili che genetisti di fama internazionale come Luca Cavalli-Sforza, nel capitolo dedicato all’analisi delle popolazioni americane nel suo libro "Storia e Geografia dei Geni Umani", prende per buone tutte le teorie antropologiche di migrazione di popolazioni verso est attraverso lo stretto di Bering che, ghiacciato, non poteva permettere che il passaggio di un numero esiguo di esseri umani. Come se un intero continente con flora e fauna autoctone, dal Nord subartico alla Terra del Fuoco, fosse stato totalmente disabitato, e solo qualche sporadico arrivo dalla Siberia lo avesse popolato.

Come ho detto, è tutta una questione di impronunciabilità.

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