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Israele e Palestina, una lunga partita a scacchi
8.04.2005
Parla Marwan Abdulla’l, segretario del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina in Libano
Israele e Palestina, una lunga partita a scacchi
’Noi profughi fuori dai territori occupati siamo ancora altri pezzi di questo gioco’. Di Alessandro di Rienzo (inviato in Medio Oriente)
"Il conflitto tra gli israeliani e i palestinesi è come una partita a scacchi. L’autorità nazionale è una pedina, le altre formazioni politiche alternative ad al Fatah rappresentano altre pedine. Noi profughi fuori dai territori occupati siamo ancora altri pezzi di questo gioco. Ognuno ha da compierai i propri movimenti. La partita è da giocarsi, i pezzi si rinnovano. Anche dentro al Fatah c’è una nuova generazione che non condivide le posizione degli attuali leaders. Il gioco è aperto".
Le parole di Marwan Abdulla’l, segretario del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina in Libano, hanno eco profondo tra le mie suggestioni. La metafora della partita a scacchi funziona bene, descrive con efficacia un conflitto che dura dagli anni ’20, ma soprattutto legittima politicamente e dignitosamente l’esistenza dei profughi palestinesi. Non ho il coraggio di dirgli che per come le cose stanno andando da qualche decennio credo che molti, anche tra gli attuali dirigenti dell’ANP considerano loro, i profughi fuori la Palestina, una pedina mangiata, posta ai margini della scacchiera, magari riversa in orizzontale, persa.
Per la devozione politica che ho verso l’interlocutore attenuo la mia versione e gli confido che secondo me il Fronte Popolare, come altre organizzazioni palestinesi, considerano il Re da difendere per non perdere la partita tutto il popolo palestinese, la minoranza annessa nel ’48 da Israele come i profughi dentro e fuori la Palestina, mentre qualcun’altro considera Re l’ANP.
Marwan Abdulla’l non condivide la mia interpretazione, non la può condividere. Si impettisce sulla sedia, schiarisce la voce e cambia metafora:
"La lotta palestinese per l’affermazione dei loro diritti è come una corsa di un autobus pubblico. Qualcuno scende dall’autobus. Ma c’è tanta gente pronta che vuole salirci. L’arrivo, la meta, è il ritorno dei profughi in Palestina, su questo il popolo palestinese non vuole cedere".
Da quando leggo le interviste rilasciate da Arafat, da quando parlo con i palestinesi ho scoperto che l’utilizzo di metafore è un ottimo mezzo per addolcire la realtà, così rendono raggiungibili obbiettivi imminenti ma lontani dalla realizzazione. Le metafore non tutti sono in grado di concepirle. I politici israeliani non lo sanno fare o non ci provano nemmeno, ci vorrebbe ironia prima di tutto verso se stessi per fare politica con le metafore.
Appena arrivato a Beirut ho avuto un senso di smarrimento. Sul mare, lo stesso che bagna Napoli, ci si arriva da un quartiere ricchissimo. Negozi francesi e italiani, gioiellerie e bar. Tutte le strade sono vuote, i negozi semichiusi, la gente poca. Qualcuno mi dice che è dovuto al clima di paura creato dagli attentati, altri mi dicono che la crisi economica rende deserte le strade di una grandeur non accessibile ormai nemmeno a chi l’ha concepita. Fatto sta che sembra quasi Cortina dopo l’arrivo dei barbari. Ma i barbari: gli arabi, sono anche i libanesi tutti.
Sabra e Chatila è una parte della Palestina dentro Beirut. Le case non hanno acqua potabile, le autorità libanesi non hanno mai voluto allacciare il quartiere alla rete idrica cittadina. Stessa situazione per la corrente elettrica. Così i generatori sono il rumore costante, spenti di notte la vita si ferma. È un campo profughi tristemente famoso da quando Ariel Sharon ha fatto entrare le truppe israeliane nel 1982 per uccidere 2500 civili in un giorno solo, altri ne erano morti prima e altri ne sono morti poi. Altri ancora sono morti nelle guerre civili, ora contro le falangi cristiane, ora contro altri arabi. A differenza dei campi profughi in Palestina le case sono alte, ma sempre una ridosso delle altre. Da una abitazione all’atra i tubi che portano l’acqua e i fili che portano corrente provvisoria. Non è assediato militarmente come quelli in Cisgiordania, la gente può far tardi nei vicoli stretti, fumare, parlare.
Un giornalista americano che viene da New York, che dice di avere origine armena, ha detto davanti a una folla radunata nel campo per ascoltarlo “No return, no peace”. Si chiama David Barsamian, dirige una radio chiamata “Alternative Radio” e scrive libri sul terrorismo. Ha fatto un discorso condivisibile da tutti i profughi palestinesi, ha parlato del diritto al ritorno, all’autodeterminazione, alla resistenza. Ha parlato dei media e delle lobbie (anche ebraiche) che creano monopoli e che comandano il mondo. Naturalmente è stato molto applaudito.
Fuori dal campo di Sabra e Chatila ci sono altri campi. Non solo palestinesi. I curdi accampati in delle strutture fatiscenti e illegali, gli zingari, i siriani che vengono ad essere manovalanza a basso costo per mandare qualche stipendio alla famiglia rimasta in Siria.
Marie Debs, del Partito Comunista Libanese mi parla della situazione attuale:“Ci sono molti progetti sul Libano, molti di questi vengono da fuori e non nascono qui. Noi siamo contenti che le truppe siriane vadano via, ma non possiamo condividere assolutamente la risoluzione del consiglio di sicurezza ONU 1559. Qui c’è chi vorrebbe un Libano confederato da due stati, uno cristiano e uno musulmano quando i cristiani sono radicatissimi nella zona musulmana e viceversa. Abbiamo una costituzione che attribuisce le cariche istituzionali per appartenenza confessionale. Noi vorremmo che questa pratica terminasse, abbiamo bisogno di fondare ancora una unità nazionale, la divisione del potere per confessioni non accellera questo processo ma lo blocca”.
Ascoltandola penso che un partito comunista in contesto come quello arabo libanese abbia ancora una funzione determinante. L’internazionalismo qui significa nessuna discriminazione tra le varie confessioni religiose. Un discorso che in Libano pochi fanno.
"Molti vogliono un Libano debole e non indipendente. Serve e Israele e agli Stati Uniti, fa parte della rimappatura di tutto il medio oriente. Abbiamo la nostra strada da fare, delle riforme istituzionali da compire. La strada è lunga, la guerra civile è da evitare assolutamente".
L’ex premier Hariri è stato assassinato davanti un hotel sul lungomare di Beirut di sua proprietà. Hariri era un uomo politico senza un partito, ma aveva dalla sua una catena di alberghi, molte scuole private, mezzi di comunicazione, società per azioni. Qualcuno dice che era un “politico improvvisato”, “prestato alla politica”. Io direi anche “uno unto da un dio” questa volta, visto il quadro libanese necessariamente multiconfessionale.
Hariri è stato ucciso con circa 350 chili di plastico. Un quantitativo di esplosivo che pochi posseggono, posto da chi ha una agibilità logistica non indifferente che i siriani difficilmente possono avere. Per le vie Beirut oggi tutti hanno ben visibile sulla automobile o all’ingresso del negozio una foto di Hariri. Anche se la p.zza dei Martiri comincia a svuotarsi lentamente la fenomenologia del martirio emotivamente ha coinvolto tutti. Nel campo un negoziante ha ritagliato i logo di Hamas e lo ha posto sulla foto di Hariri, vicino lo sceicco Yassin e il dottor Rantisi. Questi ultimi due uccisi da operazioni militari dell’esercito israeliano dentro la striscia di Gaza.

Fonte: http://www.larticolo.it/modules.php?name=News&file=article&sid=1188

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