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Soldati di pace, la lunga serie di equivoci di L. Chiaravelli.
6.05.2005

Dopo soldati di pace, la lunga serie di equivoci
Luigi Chiavarelli, 6 maggio 2005

E' indubbio che in pochi anni l'Esercito italiano ha fatto notevoli passi avanti in moltissimi campi. Una struttura decorosa e degna di rispetto, ma pletorica, anchilosata da sessant'anni di stasi, rifiutata o ignorata dagli Italiani e lasciata in uno stato di semi abbandono da parte di una classe politica rigorosamente militesente, ha dovuto rapidamente adeguarsi al nuovo quadro internazionale e alle nuove esigenze della nazione.
Divenuto funzionale alla politica estera, l'Esercito si è riorganizzato in tempi strettissimi e spesso dolorosamente. Ciò ha del miracoloso, se si pensa che questo cambiamento epocale è avvenuto nell'assoluta indifferenza dell'opinione pubblica e contemporaneamente al più intenso impegno operativo del dopoguerra. Ora, dopo drastici interventi e tagli non solo ai cosiddetti rami secchi ma anche a quella parte sana della struttura non più sostenibile finanziariamente, si comincia a vedere luce in fondo al tunnel.

L'Esercito si è ridotto di quasi due terzi ed è diventato molto più snello. Gli equipaggiamenti, le armi e i mezzi sono adeguati ai compiti da assolvere. Il sostegno logistico dei reparti operanti all'estero è aderente alle necessità. Spostare migliaia di soldati e di tonnellate di materiali in tutto il mondo mediante trasporti multimediali è diventato routine. Sta crescendo una generazione di ufficiali e sottufficiali che si è formata in impegnativi teatri operativi esteri, confrontandosi con Forze armate straniere. Parlano bene l'inglese, non hanno alcun complesso d'inferiorità, sanno comandare dei soldati di professione, hanno accolto le donne soldato senza particolari traumi. I militari di truppa professionisti, quando ben comandati, hanno raggiunto un'efficacia impensabile nel vecchio Esercito basato sulla leva.

La stima del nostro strumento militare, anche se in patria poco se ne parla, è cresciuta all'estero in maniera esponenziale e l'Esercito presenta addirittura delle nicchie di eccellenza che sono invidiate e studiate da molti eserciti stranieri. I problemi sono ancora moltissimi ma il trend è positivo, l'approccio alle tematiche operative è realistico, si sa cosa servirebbe e si opera per ottenerlo. Il problema principale è sempre costituito dalla carenza di risorse finanziarie ma non vi è dubbio che se queste arrivassero nella quantità necessaria, l'Esercito compirebbe un ulteriore, decisivo balzo in avanti.

Si potrebbe essere abbastanza ottimisti (l'uso del condizionale è obbligatoro, perché nelle pieghe di questo quadro positivo vi sono delle lacune che, se non eliminate, potrebbero compromettere il tanto di buono che è stato fatto). Lacune difficili da colmare, poiché non sono legate a carenza di risorse finanziarie o di materiali - carenze facilmente eliminabili se ci fosse la volontà di farlo - ma a resistenze di fondo, a modi di pensare profondamente radicati nella nostra cultura.

La principale lacuna è rappresentata dalla difficoltà, se non dall'impossibilità, di fare accettare al popolo italiano, alla classe politica e anche a qualche dirigente militare, che questo costoso strumento è fatto soprattutto per combattere, che è necessario che lo sappia fare bene e se non lo sa fare è solo un inutile spreco di risorse.

Sembrerebbe ovvio asserire che un Esercito serve per combattere, per vincere le guerre o, meglio ancora, per dissuadere gli altri a farci la guerra, ma nella realtà così non è. Assurdi pudori, scarsa lealtà e chiarezza nei confronti dei cittadini, decenni di parlare ambiguo hanno impedito e impediscono di chiamare le cose con il loro nome e di valutarle per quello che sono in realtà. In passato, credendo forse di renderle bene accette a un'opinione pubblica mal disposta, le Forze armate italiane e l'Esercito in particolare sono state presentate dagli stessi capi militari come una specie di organismo tutto fare, sempre pronto ad accorrere per integrare o sostituire vigili del fuoco, protezione civile, organizzazioni umanitarie.

Parole come guerra, uccidere, morire vennero di fatto bandite. Questa strana ambiguità ha impedito all'Esercito di fare il necessario salto qualitativo e ha provocato conseguenze negative nel campo del reclutamento, della formazione, dell'addestramento, dell'acquisizione di materiali, delle operazioni.

E' un'ambiguità che sussiste anche oggi con un Esercito professionale perché bene accetta da una classe politica - sia di destra sia di centro sia di sinistra - che lancia il sasso e ritira la mano e che non ha il coraggio di presentare i fatti nella loro cruda realtà. Da questa ambiguità derivano una serie di equivoci che vanno necessariamente chiariti, di luoghi comuni che vanno sfatati perché lo strumento militare possa essere in grado di affrontare adeguatamente i rischi e le sfide che il futuro ci riserverà. Per questo è bene rivisitare alcuni concetti fondamentali, logorati da un uso spesso distorto e formulare in merito alcune considerazioni. Il primo concetto da chiarire è: a cosa servono i soldati.

I soldati sono fatti per combattere e vincere un nemico. Combattere vuol dire saper usare la violenza in maniera intelligente ed efficace, saper uccidere quando necessario e mettere in conto che si può essere uccisi. Vuol dire riscoprire un'etica del combattimento dove i vigliacchi e gli eroi siano ben identificati senza ambiguità. I soldati sono i professionisti dell'impiego della forza, coloro che devono saperla impiegare senza eccessi, che la utilizzano con la stessa efficacia, freddezza e professionalità - senza compiacimenti - di un chirurgo che amputa un arto in cancrena.

Organizzazione, disciplina, motivazione, tenuta fisica e psicologica li rendono idonei a svolgere tanti altri compiti, ma quello fondamentale, quello più difficile, quello che solo loro devono saper fare è combattere. E ciò vale anche per le unità logistiche o addestrative. Le prime devono essere in grado di operare in situazioni di combattimento e le seconde di preparare i soldati al combattimento..

Chiarito a cosa servono i soldati è bene capire cosa è - o almeno cosa dovrebbe essere - un soldato. Il soldato dovrebbe essere un cittadino che si è arruolato perché è disposto a combattere per il proprio paese. Di conseguenza è errato ammettere l'esistenza di soldati di pace e soldati di guerra. I soldati sono soldati e basta e come tali devono saper fronteggiare situazioni di guerra, questo è il loro compito istituzionale. E' il potere politico che ha la responsabilità morale di impiegarli per finalità giuste.

Chi si arruola in un esercito di uno Stato libero e democratico deve dare per scontato che quando il governo legittimo decreta il suo impiego lo faccia per fini giusti e moralmente accettabili. I soldati devono essere buoni soldati, non è necessario che siano anche soldati buoni. Se lo sono meglio, purché questa bontà non ne riduca la capacità operativa. Devono essere addestrati, coraggiosi, aggressivi ed efficaci.

Soldati aggressivi ed efficaci, però, possono essere anche pericolosi. Non si può dare un'arma in mano a chicchessia. Da ciò deriva la necessità di una selezione rigorosa e un'ancora più rigorosa formazione morale e disciplinare per chi abbraccia la carriera militare. Un reclutamento buonista e a maglie larghe, mirante soprattutto a risolvere problemi occupazionali, rischia di innescare spirali perverse di inefficienza o di potenziale, ingiustificata violenza.

Analogamente, tenendo conto della unicità e dell'importanza dei compiti assegnati all'Esercito, esso deve avere la possibilità di allontanare con rapidità e relativa facilità il personale indegno, di qualunque grado esso sia. Al momento, il mancato riconoscimento - se non a chiacchiere - della particolarità e dell'importanza del comparto militare ha consentito l'instaurarsi di norme ipergarantiste, mutuate dal mondo civile, che rendono molto difficile ogni possibilità di autopulizia.

Anche l'espressione "missioni di pace" va rivista e chiarita. L'opinione pubblica comprende con difficoltà perché un soldato addestrato e dotato di costosi equipaggiamenti da guerra debba partecipare a missioni di pace. Tale definizione fa sembrare secondario l'uso delle armi, quasi fosse un fastidioso optional. Le figure del soldato, del poliziotto, del vigile del fuoco, del funzionario dedito a missioni umanitarie si mescolano. La gente non sa più distinguere le caratteristiche di ognuno e rischia di ritenerli intercambiabili.

In realtà l'Esercito è ora impiegato in contesti in cui la forza militare è il principale mezzo per riportare la pace e l'ordine. Contesti in cui elementi organizzati, il nemico, si contrappongono ai nostri soldati e sono disposti a ucciderli utilizzando le tecniche ben note della guerra sovversiva. Per assolvere il compito e sopravvivere i soldati mettono in pratica quanto appreso durante l'addestramento e usano le armi.

Per queste ragioni è più appropriata l'espressione: missioni di guerra per il mantenimento della pace. Impiegare un costoso e prezioso strumento militare per compiti esclusivamente pacifici sarebbe uno spreco che non potremmo permetterci, se non obbligati da eventi di eccezionale gravità e in mancanza di idonee alternative.

Un altro equivoco riguarda la guerra. Se ne parla tanto ma pochi la conoscono veramente. Si sente ripetere: "La guerra non ha mai risolto nulla". E' un falso, è una tragica menzogna che induce a sottovalutare questo pericolo sempre immanente e a credere di poterlo sconfiggere solo con le chiacchiere.

Le guerre hanno fatto la storia, le guerre hanno cambiato il mondo, cancellato civiltà, punito aggressori e sterminato innocenti per millenni. La guerra è un mostro assetato di sangue, alimentato dal male insito nell'animo umano. Non si elimina con le belle parole e le bandiere arcobaleno. Va studiata a fondo, analizzata e finché possibile prevenuta o neutralizzata con ogni mezzo pacifico, iniziando con il bandire la violenza dai rapporti interpersonali. Certo, è più facile a dirsi che a farsi.

In realtà, dalla storia emerge evidente una triste verità: che i periodi di più lunga pace sono stati quelli imposti con le armi, quelli in cui gli aggressori sono stati sconfitti o tenuti a bada con forze deterrenti o in cui sono stati gli aggressori stessi, vincitori, a imporla ai vinti. Non si può far finta che questa verità non esista e bisogna prendere i provvedimenti conseguenti. Chi pensa che l'antica, conosciutissima massima "Si vis pacem para bellum" sia assurda e sorpassata si prepari a giorni tragici. Theodore Roosevelt espresse efficacemente un mai smentito concetto: "Chi vuole rispetto deve parlare a bassa voce e impugnare un nodoso bastone".

Per noi figli della pace, educati al rispetto e alla non violenza, la guerra è incomprensibile, assurda. Rifiutiamo di credere che non si possa individuare un punto di contatto, un compromesso che flemmatizzi le pulsioni aggressive e garantisca la pace, ma le nostre categorie di giudizio non sono così diffuse come si crede. Il ricco Occidente è un'isola felice. I rapporti violenti dominano in gran parte del mondo e la mano tesa è spesso interpretata come un atto di debolezza. Il pacifismo imbelle, il disarmo unilaterale, fanno solo il gioco dei violenti e dei sopraffattori.

Altri equivoci: differenziare le armi in armi di attacco e armi da difesa, armi buone e armi cattive, parlare di protezioni sicure e protezioni non sicure. Nella realtà non esistono armi d'attacco e armi da difesa ma tutte le armi servono per entrambe le funzioni. Non esistono armi buone e armi cattive ma ciò dipende dall'uso che se ne fa. Sono concetti banali ma che è bene ribadire perché ne deriva una conseguenza importante: anche durante le missioni di guerra per il mantenimento della pace, si devono poter utilizzare tutte le risorse ritenute utili a seguito di valutazioni squisitamente tecniche e senza limitazioni dovute, invece, a valutazioni di opportunità politica.

Per quanto riguarda la sicurezza, deve essere chiaro che nessuna protezione elimina la possibilità di essere colpiti, sia quella di un carro armato, di un giubbetto antiproiettile o di un elicottero. E' chi impiega le forze che ha l'onere e la terribile responsabilità di utilizzare ciò di cui dispone cercando di adottare la protezione più efficace, che però non impedisca l'assolvimento del compito. Protezione e capacità di movimento, ad esempio, sono parametri antitetici. Uno dei più difficili compiti dei comandanti sul campo è proprio trovare il giusto compromesso, accettando un rischio tanto più elevato quanto più la missione è importante.

Ma la guerra è il regno dell'imprevisto, il campo dove volontà e intelligenze si scontrano per sopraffarsi, pertanto nonostante tutti gli accorgimenti si muore e si continuerà morire. E' un miracolo quando ciò non succede e tutti tornano a casa.

Un altro aspetto da mettere meglio a fuoco è l'addestramento. Un tempo, quando c'era la leva, qualcuno asseriva che sarebbero basatati sei mesi per formare un soldato. Questa convinzione è ancora molto diffusa. Si pensa che chiunque possa fare il soldato, che quello delle armi sia un mestiere come tanti altri.

La parte tecnico tattica dell'addestramento militare è, in realtà, relativamente semplice. Qualsiasi giovane mediamente dotato può apprendere in pochi mesi le nozioni e acquisire le abilità necessarie per ricoprire in tempo di pace la maggior parte degli incarichi. Ciò che è veramente difficile è esercitarle in operazioni. Qui entrano in gioco il carattere, il coraggio, la tenuta psicologica, la resistenza fisica e il numero degli idonei si riduce drasticamente.

Il soldato deve saper operare là dove nessun altro saprebbe operare. E' il professionista della emergenza estrema: la guerra. Deve poter resistere per settimane e mesi in situazioni fortemente degradate e mantenere integre le proprie capacità. Deve mantenersi lucido anche se non mangia e non dorme. Deve mantenersi calmo anche se vede morire al suo fianco il suo migliore amico. Deve resistere alla più forte pulsione umana, quella dell'istinto di sopravvivenza.

Per ottenere ciò, la formazione morale deve essere continua e l'addestramento deve essere molto duro, più duro della realtà, capace di elevare costantemente il grado di sopportazione e la tenuta del soldato. Ciò comporta rischi e pericoli, che però devono essere dati per scontati senza che anime belle si scandalizzino se qualcuno ci lascia la vita o la salute. Cercare il "rischio zero" vuol dire non addestrare. L'importante è che lo Stato fornisca un'adeguata tutela agli invalidi e alle famiglie.

Per ultimo vale la pena evidenziare un pericolo che riguarda i comandanti. Di ambiguità in ambiguità, c'è il rischio che anch'essi vengano contagiati dall'imperante clima di dissimulazione della militarità. Può insinuarsi in qualcuno di loro il dubbio che il buon comandante sia quello che non crea imbarazzi alle superiori autorità, soprattutto politiche, un comandante meno guerriero e più diplomatico che preferisca evitare ogni rischio anche a costo di non assolvere pienamente il compito.

Poiché ora come non mai i comandanti sono esposti al giudizio dei media e della magistratura e la figura del manager è molto più accettata di quella del combattente, in operazioni il non fare può essere considerato preferibile al fare. Se così fosse, si premierebbe l'inerzia e si valorizzerebbe il conformismo anziché lo spirito d'iniziativa, la creatività e il culto del raggiungimento dell'obiettivo.

In effetti, vincolanti regole d'ingaggio fanno sì che gran parte degli scontri si risolvano in ritirate o nel chiudersi a difesa lasciando all'avversario ogni iniziativa. L'importante è che questo non diventi un comodo atteggiamento per evitare guai e che si curi nei comandanti l'arte del comando in battaglia valorizzando e premiando l'iniziativa e la giusta aggressività.

Si può capre che queste affermazioni possano essere difficili da comprendere da chi ritiene di poter applicare alla guerra le regole della nostra società ricca e pacifica, da chi ritiene di raggiungere la pace con cartelli e cortei, ma bisogna guardare in faccia la realtà per quella che è e non per quella che si vorrebbe.

Chi ama veramente la pace deve sapersi assumere delle dure responsabilità tra cui anche quella di doverla imporre con le armi. Se per indole o profonda convinzione non ritiene di avere la forza di imbracciare un'arma, sostenga chi quella forza ce l'ha e soprattutto vigili sulla sua formazione e su coloro che poi dovranno deciderne l'impiego.

Per dare significato ed efficienza al nuovo Esercito è necessario eliminare ogni equivoco, riscoprire la professione delle armi nella sua cruda realtà e ricollocarla nel posto corretto, di assoluta rilevanza, che le compete nell'ambito di uno Stato democratico. L'alternativa è delegare ad altri l'uso delle armi, accettando di perdere una porzione significativa della nostra libertà. E' bello e piacevole distribuire viveri e costruire scuole, i soldati sanno fare bene anche queste cose che sono molto più semplici del combattimento.

E' gratificante sentirsi buoni, è bello non essere contestati. L'importante è che i soldati rammentino sempre che non è per questo che sono stati arruolati e se qualcuno glielo ha fatto credere è un disonesto. E' necessario che coloro che si arruolano sappiano a cosa vanno incontro e siano orgogliosi di andare a far parte di quella compagine di cittadini a cui nei secoli è stato affidato il compito fondamentale e difficilissimo della difesa in armi del proprio popolo e dei suoi interessi e a cui oggi si aggiunge quello ancor più gratificante del mantenimento della pace.

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