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Nello Stato di diritto (di Vincenzo A. Romano) |
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13.05.2005
Nello Stato di diritto di Vincenzo A. Romano
Roma 13 maggio 2005
"...alla luce del comune modo di sentire della comunità politica (o delle comunità politiche) che ha prodotto l'articolo 270 bis C. P. (o altre norme equivalenti) deve ritenersi che…” (Roberto Spanò, Procura della repubblica di Brescia).
Alla luce dell’assunto che “le leggi – come scrive Spanò - sono espressione del comune modo di sentire di una collettività radicata in un determinato contesto storico e geografico; niente vieta di pensare che in Italia qualche spirito incosciente si stia riappropriando del vecchio concetto di “volkgeist” o “spirito del popolo” che permise a Carl Schmitt di entrare in quella ancora irrisolta “querelle” che ne fece, contemporaneamente, il giurista nazista affossatore della Repubblica di Weimar e quello più odiato dalle SS. Avevamo plaudito al comportamento del giudice Forleo non per un malinteso senso di garantismo per gli islamici, ma proprio per il fatto che la sua decisione di valutazione delle prove era semplicemente conforme al dettato Costituzionale dell’art. 111 (novellato) e non a liste di proscrizione seppure compilate dalla unica superpotenza mondiale. Perché questo è il punto. Alla domanda se questa “comunità politica”, ora che il governo ha una maggioranza blindata rispetto alla legge ordinaria, abbia o meno la “responsabilità ”, attraverso il suo modo di sentire, di formare il diritto positivo, la risposta deve essere negativa perché, in caso contrario, nulla vieterebbe, ad un altro governo, di ribaltare il precedente assetto in una posizione “borderline” di alternanza che non è paranoia o schizofrenia, ma nemmeno normalità . Non indigna per nulla certa stampa, giustizialista a giorni alterni e che invece plaude al ritrovato diritto, il fatto che un giudice assuma come base di un impianto accusatorio: “contesti di collaborazione internazionale”. Oppure l’argomento che "non può ignorarsi al proposito che l'organizzazione Ansar al Islam, cui gli imputati sono riconducibili, è stata inserita dal governo degli Stati Uniti tra le organizzazioni terroristiche che intrattengono rapporti con la temibile Al Qaeda"? Non viene il brivido, a costoro, che ciò sia, per il codice italiano, per la nostra tradizione giuridica, per il dettato costituzionale, per il nostro retaggio umanistico, un fatto abnorme? A nulla vale che negli Stati Uniti, nemmeno essi immuni, ma dopo una tremenda sciagura, dal rispolvero del vecchio concetto “amico/nemico”, un giudice federale, di rilevanza governativa quindi, si è opposto al concetto della pena ad ogni costo ed ha riconosciuto che a Guantanamo si è violata la Costituzione e, riappropriatosi del principio “nulla poena sine lege”, ha rigettato alle ortiche l’odioso, antico ed illiberale: “nullum crimen sine poena”, concezione che lascia ogni cittadino in balia anche del potere giudiziario? Ma, viene da domandarsi, è più auspicabile, per un cittadino, avere un giudice che applichi la Costituzione, il Diritto internazionale ed i codici vigenti od un giudice che guardi al governo per assicurargli la massima efficienza superando il dettato costituzionale e le garanzie che esso ci assicura? Il dubbio è ancora più tormentoso se ci si pone l’interrogativo riguardo alla personalità dell’imputato, brutalmente intesa, sotto la prospettiva di razza e religione. Siamo cioè vittime, anche in buona fede, di un “razzismo differenzialista” che ha fatto strame della concezione dell’uomo civile, ritornando ad un concetto coloniale di diversità , magari inconscio, e considera le nozioni di "essere umano" ed "umanità ” come costruzioni ideologiche che per una certa parte del “popolo” (la comunità etica, forse) suonano in genere come rielaborazioni post-illuministiche e magari, per soprammercato, giacobine? La domanda pare lecita se consideriamo la iconoclastia per ogni contesto che si rifaccia ad una ideologia (e non solo comunista, per carità ) proprio in nome di un irrefrenabile egocentrismo che tanto acutamente Alexis de Tocqueville intravedeva negli americani del tempo. Scriveva Tocqueville (sempre esaltato dai filo-neocom che forse non lo hanno letto con attenzione) degli americani: “Allora non soltanto è distrutta la fiducia in un uomo, ma il gusto di credere a un uomo sulla parola. Così ognuno si rinchiude in se stesso e pretende di giudicare il mondo da solo”. (A. de T. “La democratie in Amerique”, Candeloro, Rizzoli). Ma nell’Italia delle culture giuridiche e di Lorenzo Valla, abbandonato il senso dell’uomo e dimenticato Beccarla, ci crogioliamo nell’individualismo bieco di una resipiscenza pre-totalitaria. A darci fiducia in uno stato di diritto e costituzionale quale siamo e vogliamo continuare ad essere, ci giunge fresca e consolante la notizia della decisione della Corte di assise di Milano che assolve cinque islamici dall’accusa di terrorismo. Due sono i punti che ci danno fiducia per il comportamento di quella Corte. Il primo è quello che l’operazione Bazaar ed i suoi filoni non potevano portare a condanne per il semplice fatto del “si dice che siano terroristi”; il secondo, ma più importante, sta nel fatto che una giuria popolare abbia valutato secondo le prove offerte in dibattimento e non “per il sentire comune della comunità politica” (quella delle liste di proscrizione, naturalmente). In Italia, per fortuna, la giustizia viene somministrata dai giudici, siano dei gup come Forleo e Brichetto o delle corti di Assise, e non dall’onda del sospetto popolare e dalle liste dell’FBI.
Roma, 13 maggio 2005
www.comunisti-italiani.it/frames/index.htm
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