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Costa troppo mantenere il blasone della qualità se si è piccoli
17.05.2005

Costa troppo mantenere il blasone della qualità se si è piccoli e poco noti

Sono stati tre giorni di festa per i custodi della biodivesità italiana, riuniti da venerdì in Sicilia per gli Stati Generali dei Presidi. Non di una celebrazione si è trattato ma di un ampio e approfondito confronto tra chi crede che le piccole produzioni artigianali a rischio scomparsa possano essere salvate e ha costruito su questa convinzione il proprio lavoro.

Dopo più di vent’anni dall’introduzione di DOP e IGP una riflessione su quale strada percorrere per salvaguardare l’eccellenza agroalimentare è diventata ineludibile. Con l’introduzione delle denominazioni comunitarie, si era voluto creare un elemento giuridico forte che fosse in grado da un lato di tutelare le produzioni tipiche dalle falsificazioni o dalle imitazioni, dall’altro di promuovere quelle stesse produzioni presso i consumatori. Il mondo produttivo italiano accolse con grande entusiasmo questa novità legislativa e oggi l’Italia è il paese con il maggior numero di riconoscimenti e molti prodotti ancora in lista di attesa. Dop e Igp sono state una scelta provvidenziale, ma non mancano i problemi da risolvere: hanno ancora difficoltà a farsi riconoscere come tali dai consumatori e le aziende più piccole si stanno rendendo conto che le spese a loro carico, per rispettare le regole delle denominazioni, sono più onerose di quanto pensassero.

E’ chiaro che per colossi come il Parmigiano Reggiano, il Grana Padano, il Prosciutto di Parma, l’Asiago, tutte denominazioni che da tempo potevano contare su Consorzi efficienti e con i conti in ordine, affrontare le nuove incombenze è stato relativamente facile. Ma per piccole produzioni che sull’onda dell’entusiasmo hanno richiesto ed ottenuto la Dop o l’Igp, le cose sono assai più complicate. Dop come il Murazzano, il Castelamagno, il Ragusano o Igp come il pane casereccio di Genzano o la Nocciola del Piemonte – tanto per fare alcuni esempi - fanno fatica a riscuotere dai soci le spese che sostengono. E molti soci finiscono per rinunciare alla marchiatura per risparmiarsi quelle spese e forse anche perché insofferenti o non abituati ai controlli che quelle denominazioni impongono.

Di fronte alle difficoltà viene spontaneo chiedersi: che sarà di tutte quelle piccole produzioni italiane, quelle censite dalle regioni e che ormai hanno superato le 4000 specialità? Quelle produzioni locali, tradizionali, di qualità che rischiano di non poter mai ambire ad un riconoscimento europeo? Dovranno affidare le loro sorti a qualche imprenditore intraprendente che ne registrerà, più o meno legalmente, il nome come marchio? O a marchi collettivi che fuori Europa non hanno status? O semplicemente rassegnarsi a sparire, vittime di un mercato globalizzato dove solo i più organizzati, i più grossi possono resistere? Slow Food non ci sta a perdere questa straordinaria ricchezza e oggi trova alleati tra le istituzioni, le parti più sensibili della grande distribuzione, tra i cittadini più attenti. Nessuno si rassegna a questa iattura, in momenti in cui la nostra struttura produttiva vive anni di grandissima sofferenza a causa della concorrenza internazionale. Occorre uno sforzo di fantasia per riuscire a tutelare anche quelle piccolissime specialità, rappresentate magari da uno o due produttori, da pochi ettari di coltivo o da alcune migliaia di capi. Produzioni che per ora vivono ai margini della grande giostra commerciale, ma che possono crescere e che possono far gola a qualche imprenditore pronto alla biopirateria alimentare.

Il primo passo da compiere è quello di rafforzare il sistema della tracciabilità, dando alle regioni il compito di ideare e organizzare un sistema adatto allo scopo. Occorre vedere, in secondo luogo, se già con le leggi esistenti è possibile tutelare gli oltre 4000 prodotti tradizionali che proprio le regioni, in accordo con la legge comunitaria, hanno individuato. Si tratta di un patrimonio immenso, non valorizzarlo in modo adeguato sarebbe un delitto.

La sfida non è delle più semplici, navighiamo in acque agitate e molti sono gli ostacoli da superare prima che la nave della biodiversità approdi in un porto sicuro. Ci confortano i risultati ottenuti in pochi anni con il progetto dei Presidi e la determinazione delle persone che in questi giorni si sono riunite a Tindari per raccogliere la sfida.

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