Otto dirigenti della Eternit Siciliana sono stati condannati per omicidio colposo commesso ai danni di 25 operai, che hanno lavorato nella sede di Siracusa dal 1976 al 1994. Giustizia è stata fatta. Forse.
Maria mi accoglie a casa sua. Sono da poco passate le tre del pomeriggio. L’atmosfera in penombra, che domina la casa, mi da la sensazione di una serata anticipata d’inverno. Mi fa accomodare in soggiorno e l’odore acre di ammoniaca delle ciminiere, che si vedono dalla finestre, si è già impadronito delle pareti, oltre che delle nostre narici.
Maria è rimasta qui, accanto ad un’altra morte che promette futuro e ricchezza. E’ rimasta per non dimenticare.
Il tempo sembra essersi fermato. Il tempo si è fermato. Lo constato dalle foto ben ordinate sulla credenza. Una vecchia credenza dal vetro verde come ripiano, che ospita da anni uno specchio dalla intelaiatura smerigliata.
Il tempo si è fermato come il retro delle cornici che indicano date lontanissime: 1965, 1966. Qualcuna più recente mi mostra un quadretto familiare di tre persone: Maria e i suoi due figli. Manca Giovanni, il marito. Vedo la sua immagine nella classica foto da matrimonio. Gli occhi un po’ impacciati dalla emozione. La stessa che leggo adesso, negli occhi spenti di Maria.
Giovanni era un operaio della Eternit Siciliana. Era tornato a casa, quel primo pomeriggio di lavoro, con la tuta ancora addosso. La sera l’aveva portata a festeggiare in pizzeria. Poi erano passati quasi dieci anni di incazzature, di minacce di licenziamento, di figli cresciuti con un solo stipendio. Di paure da trasformare in dicerie. Le paure che i sindacati e le associazioni ambientaliste inneggiavano sui cartelli delle manifestazioni di protesta.
Poi, una mattina, Maria scoprì quella macchia sulla schiena di Giovanni. Era domenica mattina. Maria me la descrive con le dita. Racchiude l’indice dentro il pollice, per indicarmi “quanto era piccolina...”, e me lo ripete, quasi non le credessi.
Si alza e prende la cartella clinica. E’ dentro il primo cassetto della credenza. Le dico che non occorre, ma lei insiste. Insiste disperata e non ancora rassegnata. La vedo asciugarsi le lacrime, attraverso lo specchio.
“La notte non dormiva più, e neanch’io”, mi dice. “Aveva una tosse asfissiante e un forte dolore al petto”. Le sue parole mi fanno pensare al versamento pleurico, l’anticamera del tumore ai polmoni. Ma lei potrebbe spiegarmi tutto, se ci fosse il tempo.
Potrebbe parlarmi dell’asbestosi e delle sue complicanze respiratorie. Potrebbe spiegarmi che ci vogliono solo 5 anni di esposizione all’amianto per contrarre il male e morire. Potrebbe precisarmi che il marito non era un fumatore, e che la sigaretta è solo un aggravante dell’adenocarcinoma polmonare. Potrebbe parlarmi dei quasi 9.000 euro che le toccheranno di indennizzo, come ha saputo dalla lettura della sentenza, ascoltata alla televisione. Potrebbe.
Ma mi dice che questi “sporchi” soldi non li vuole. Che sono soldi fatti con la vendita delle vasche di amianto che costruiva il marito, mentre il “padrone” Schimidheiny o come “spacchio” - non riesco a censurarla, non me la sento - si chiamava quel porco, organizzava le feste nella sua villa faraonica, in Svizzera o chissà in quale altro angolo del mondo. Lontano da strane contaminazioni, con gli altri otto dirigenti, oggi condannati. Mi informa che quattro imputati sono morti, nel frattempo. E mi urla che non prova pietà , anche se un buon cristiano, certe cose, non dovrebbe dirle. “E perché, poi? Se il diavolo fosse stato considerato un essere umano, perché Dio lo ha cacciato nel culo del mondo?”
Neanche questa domanda, riesco a censurare.
Fonte: http://www.girodivite.it/article.php3?id_article=2544
mt