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Il bosco tondo (di Paola Carini)
1.07.2005
Lo spicchio nordorientale dello stato del New Mexico è l’incarnazione dell’epopea del west.
È una terra traboccante di ricordi di mitici pistoleri, di assedi ai forti degli “indiani” navajo (cioè diné) e apache, di villaggi pueblo ma anche di rovine antichissime e misteriose come quelle degli anasazi a Chaco Canyon.
Laggiù, dove la famosa route 66 serpeggia tra toponimi anglosassoni e spagnoli, nella valle del fiume Pecos si erge Fort Sumner, ridente paese di 1249 abitanti che nella brochure turistica elenca come attrazioni “uniche” il Museo di Billy The Kid, il fiume Pecos, una base dell’aviazione e una struttura della NASA.
Citato a margine come sito al di fuori dei confini municipali è il Bosque Redondo Park, il luogo dove vennero imprigionati migliaia di diné e mescalero apache in un quello che fu un campo di lavori forzati dal nome ameno: Bosque Redondo, il boschetto tondo.
Ma le parti inenarrabili della Storia, si sa, sono un fenomeno carsico: sprofondate nelle fenditure del tempo non esistono, almeno fino a quando, inaspettatamente, emergono in superficie. Ed è allora, quando non sono più occultabili, che ci costringono a fare i conti con noi stessi e con il nostro futuro. Come quel bosco tondo che non c’è più.

Prima del 1862, Bosque Redondo era un tratto della valle del fiume Pecos costellato da magnifici pioppi americani con la loro infiorescenza a fiocchi gialli e soffici. Poi, per costruire il forte che porta il nome del Generale Edmond Vose Sumner, il bosco venne tagliato quasi completamente.
Il forte era una necessità: coloni sempre più numerosi premevano per conquistare terra coltivabile nell’ovest, nel caso specifico terra diné, il gruppo tribale più numeroso stanziatosi laggiù dopo una lunga migrazione dal nord subartico. Comprensibilmente, le popolazioni autoctone non furono spettatrici passive di quel ladrocinio e la loro resistenza fu vigorosa fino a quando il famoso Kit Carson venne incaricato dall’esercito di fare “terra bruciata” attorno agli indiani ribelli.
Nel 1863 i campi coltivati di diné e mescalero apache vennero sistematicamente distrutti durante l’estate in modo che durante l’inverno successivo, quando furono messi sotto assedio, morissero di fame.
E molti infatti morirono, ma quelli che furono costretti ad arrendersi precipitarono nell’inferno del campo di lavori forzati di Bosque Redondo per cinque, lunghissimi anni.

Tutto iniziò con una marcia forzata dalla propria terra natale in Arizona fino a Bosque Redondo nel New Mexico, un percorso di circa 400 miglia (approssimativamente 650 Km), fatto a piedi da 9000 diné e da un alto numero di mescalero.
L’esercito sparava ai tanti troppo deboli per proseguire, soprattutto anziani e bambini, altri morivano dagli stenti, e un terzo dei sopravvissuti che giunsero al forte morì quasi immediatamente di dissenteria. Ufficialmente “in quarantena per essere civilizzati”, i prigionieri furono obbligati a lavorare la terra, ma il taglio massiccio degli alberi aveva causato il dilavamento e l’erosione del terreno sfavorendo le pratiche agricole.
Fu così che ai rinchiusi venne imposto l’obbligo di piantare altri pioppi, 12.000 in soli sei mesi, che sarebbero stati nuovamente tagliati per essere utilizzati come combustibile durante la Grande Depressione.

Le condizioni di vita a Bosque Redondo erano pessime, talmente orribili che, nonostante la posizione isolata, non fu più possibile nascondere l’esistenza di quel campo vergognoso e, nel 1868, una commissione governativa condusse un’inchiesta a seguito della quale i diné vennero rimandati nelle terre d’origine.
Un nuovo trattato, il Bosque Redondo Treaty, assegnò all’incirca 3 milioni e mezzo di acri di terra (un quinto di quella originaria) ai diné: era terra arida, inadatta sia alla coltivazione che al bestiame. Quel trattato, come tutti gli altri, obbligava il governo federale ad agire affinché ai diné fossero garantite le migliori condizioni di vita nella riserva; tradotto nella realtà dei fatti in quella riserva, come in tutte le altre, le genti tribali dipendevano totalmente dai bianchi per la mera sopravvivenza.
Come se non fosse bastato aver perso la terra e la libertà, i diné furono anche privati della dignità, costretti a mendicare ad agenti indiani senza scrupoli e senza moralità gli approvvigionamenti loro dovuti.

L’inenarrabile svolgimento del massacro pianificato di Bosque Redondo sparì poco dopo negli inghiottitoi della Storia, ricordato solamente dai sopravvissuti e dai loro discendenti. 137 anni dopo, il 13 giugno 2005, è riemerso dirompente a sorprendere, disturbare, redarguire ma anche guarire una ferita che diversamente non avrebbe potuto essere ricomposta.

Sulla riva meridionale del fiume Pecos, all’interno del Fort Sumner State Monument, si erge un monumento commemorativo dedicato a coloro che persero la vita sia durante la marcia che nel campo di prigionia. È una costruzione lineare, bassa, da cui spunta una piramide disegnata dall’architetto diné David Sloan a rappresentare quel che fu Bosque Redondo, un mattatoio.
Fortemente voluto dalla nazione diné e dalla nazione apache, il monumento è stato inaugurato lo scorso giugno alla presenza dei discendenti dei prigionieri, delle più alte cariche dello stato e del governo federale durante una cerimonia affollata e commovente.

Benché non tutti i tradizionalisti diné concordino sulla necessità di un monumento alla memoria, la speranza è che diventi un luogo simbolo di pace e di concordia. José Cisneros, direttore del circuito dei monumenti dello stato del New Mexico, lo ha definito il “museo della coscienza”, della consapevolezza di ciò che è stato e che non dovrà più essere.

Forse, più di tutto, esso esprime il desiderio di condividere l’enorme dolore di migliaia di persone imbrancate e rinchiuse come animali, costrette a marciare sotto la minaccia delle armi, condannate a morire di fame, sete e malattie.
Perché né una legislazione che protegge i diritti umani, né la commozione estemporanea, né alcun codice morale possono impedire che la stessa cosa si ripeta. Si è ripetuta in Europa nel secolo successivo, a volte con somiglianze straordinarie.
E se oggi continua a ripetersi frequentemente nel continente africano e chissà dove altro, in luoghi dimenticati e nascosti, è perché un numero insufficiente di persone di ogni angolo del mondo ha scelto di fare proprio uno spicchio di quel dolore altrui e di portarselo con sé affinché, come una lanterna, illumini il futuro.

Gli esordi queste tragedie “banali”, come diceva Hannah Arendt, scaturiscono tanto da “cose insignificanti” quanto “coloro che non alzano la voce davanti alle ingiustizie”, come racconta la scrittrice nativo-americana di origini chickasaw Linda Hogan nella sua autobiografia. E finiscono con l’assumere proporzioni immense e ripercussioni ancor più vaste, innescando reazioni a catena di intolleranza, odio, razzismo, violenza.

Eppure basterebbe un dettaglio, un particolare come il vento di Auschwitz o i pioppi dai fiori gialli di Bosque Redondo per ricordarci che il futuro collettivo è appeso con un filo sottile al nostro pesante passato. Se il dolore patito da chi è venuto prima di noi non verrà riconosciuto e condiviso, il suo peso finirà con il recidere quel filo, trascinando con sé anche il nostro futuro.

Il monumento di Bosque Redondo è appunto un monito: le vicende di violenza non possono continuare a scorrere invisibili come fenomeni carsici nelle fratture della Storia, perché finirebbero col farci sprofondare, tutti, in un abisso senza futuro.

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