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Architettura: Grado Zero?
5.07.2005
Di Fabrizio Violante.Scritto in risposta al 3° convegno fiorentino: identità dell’architettura italiana
Firenze, Aula Magna dell’Università, Piazza San Marco, 28-29 Giugno 2005.
Uscito sul nr. 0 del pieghevole mensile di arti e architettura intitolato interferenze, firenze, luglio 2005

Non vi è dubbio che la cultura architettonica italiana abbia dato vita nei secoli ad un patrimonio unico, in cui lo stretto dialogo tra ambiente costruito e paesaggio naturale ha modellato quella che è oggi ancora l’immagine più conosciuta e riconoscibile del nostro Paese. Tuttavia, chi sostiene che, nel momento in cui si è smesso di parlare la lingua architettonica di questa tradizione, si sia dato vita ai disastri delle nostre periferie urbane e alla crisi dell’architettura, commette un grave errore di comprensione della realtà.

La tradizione architettonica fondata sulle categorie classiche di ordo et mensura non risponde - e non corrisponde - più alla realtà contemporanea in continua mutazione. Deve essere chiaro, oggi come non mai, che invocare ancora il recupero di questa identità tradizionale dell’architettura italiana è non solo anacronistico, ma dannoso. Il recupero di un modello che deve ripetersi, i concetti di origine e identità, la rincorsa di una realtà che non c’è più, rappresentano logiche letteralmente reazionarie, che pretendono il controllo del cambiamento in atto, il governo delle nuove sensibilità artistiche e architettoniche, che dovrebbero invece essere lasciate libere di esprimersi e muoversi in tutte le diverse direzioni che l’attuale realtà presenta e sollecita.

Se vogliamo - come vogliamo - che l’architettura italiana abiti il mondo, senza chiudersi in un autistico regionalismo, dobbiamo rivolgerci non al concetto di identità, ma piuttosto accettare la realtà della differenza, intesa non come essere diverso da - l’architettura italiana in opposizione a quella di altri Paesi - ma come intreccio, ibridazione, contaminazione delle diverse realtà contemporanee.

In questo senso, l’imperativo dell’architettura non deve essere la ricerca di una lingua comune che pretenda di farsi voce unica della maggioranza, ma lasciarsi appunto ibridare da tutte le diverse istanze che provengono da ogni parte del mondo, soprattutto dai Paesi più poveri, ricordando, con Felix Guattari, che proprio le società capitalistiche non hanno smesso di eliminare dalla loro architettura e dal loro urbanesimo ogni traccia di singolarizzazione soggettiva, in favore di una rigorosa trasparenza funzionale, informativa e comunicativa.

Se, dunque, interrogarsi oggi sull’identità dell’architettura italiana è esercizio inutile, lo è ancora di più nella nostra Facoltà di Architettura, in una città come Firenze, simbolo di quell’architettura che si pretende identitaria del nostro Paese (e forse si dimentica che da sempre l’architettura italiana è stata contaminata da influssi esterni, ad esempio arabi e bizantini); in una città dove l’esercizio sterile dell’architettura tradizionalista ha prodotto l’edilizia povera di idee del nuovo quartiere che si è realizzato, e si sta realizzando, nell’area ex Fiat e Carapelli a Novoli, in cui è evidente come i simulacri dell’architettura storica non rispondano certo ai problemi della periferia e dove l’unico gesto spaziale forte e significativo è rappresentato non a caso dal Palazzo di Giustizia di Leonardo Ricci, che molto si allontana dalla tradizione; in una città dove l’immobilismo conservativo impedisce la costruzione della pensilina di Isozaki agli Uffizi, o dove si parla di ricostituire il Comitato per l’estetica cittadina nell’idea di una riqualificazione della città che vada nella direzione del bello (!), come informano da Palazzo Vecchio...

Ecco, allora, che in questa Italia dove perfino gli outlet vengono costruiti nelle forme di finti borghi medioevali, occorre risvegliarsi dal torpore dell’architettura tradizionalista, nel segno di un’architettura in cui, per dirla con le parole di Zaha Hadid, più importante di tutto è il movimento, il flusso, una geometria non euclidea ove nulla ripete se stesso.

Infine, la provocazione: luoghi come la Stazione Leopolda a Firenze o, ancor più, i Cantieri Isola a Milano, dove, come nel Palais de Tokyo a Parigi, gli spazi sono riorganizzati a partire dalla spoliazione dell’edificio di ogni caratterizzazione architettonica, di ogni aggettivazione, di ogni identità specifica - come una sorta di vuoto assoluto, luogo della deterritorializzazione per eccellenza -, dimostrano come oggi l’architettura debba ripartire proprio da ZERO, e rifondarsi in un linguaggio completamente nuovo che faccia tabula rasa del passato e risponda ai cambiamenti in atto.

L’architetto dovrebbe abbandonare ogni intenzione autocelebrativa e non dimenticare mai che l’architettura è creazione di spazi, solo questo. Tutto questo...

Fonte: http://bellaciao.org/it/article.php3?id_article=9219

mt

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