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Dolomiti di Pace
23.07.2005
Oltre l'indifferenza. Intervista a Roberto Salvan e Marian Ismail

Nella cornice mozzafiato del gruppo della Marmolada, seduti sul prato dietro il Rifugio Contrin a 2000 metri, abbiamo ascoltato in un clima intimo e famigliare le parole, i pensieri e le esperienze di Roberto Salvan e Marian Ismail, ospiti di “Dolomiti di Pace”, la manifestazione realizzata da Trentino S.p.a., Fondazione Opera Campana dei Caduti e Forum Trentino per la Pace, per parlare di pace nei luoghi di guerra di ieri.
Il cielo azzurro e limpido e il sole caldo, condizione particolarmente fortunata come sa bene chi va in montagna, sembrava volessero dare anche il loro saluto a questa giornata. Intervistati dal giornalista Roberto Keller, il direttore dell’UNICEF e la presidente della associazione “Donne in rete”, hanno parlato della condizione dei minori e delle donne nei Paesi più disagiati, ma anche in Italia, dove, nelle zone ombra della nostra società, si nascondono tante microsituazioni di povertà ed esclusione di fronte alle quali è facile essere indifferenti.

Ismail: “Sono arrivata 26 anni fa in Italia da Mogadiscio come rifugiata politica. Non sono arrivata con i barconi, ma ho vissuto comunque sulla mia pelle la condizione di precarietà e di ansia dovuta ad uno spostamento forzato, al quale si aggiungeva l’ostacolo della burocrazia. In Italia, allora, non esisteva infatti il riconoscimento del diritto di rifugiato politico. Ed io, assieme alla mia famiglia, per dieci anni non appartenevamo né alla comunità somala, né a quella italiana in attesa di decreto ministeriale. Questa esperienza mi ha portato a guardarmi attorno per garantire pari dignità e rispetto a chi è il più debole in queste situazioni. E lo sono soprattutto le donne migranti, i bambini e gli anziani che si scontrano con la burocrazia e il problema più intimo dovuto al riconoscimento della propria identità e al superamento di ossessioni, paure e insicurezze che derivano da una situazione estrema come quella di una guerra civile.”

“Una delle sue battaglie principali è quella contro l’infibulazione”
Ismail: “La mutilazione genitale è una delle pratiche appartenente alle tradizioni africane per cui mi batto affinché venga debellata. Per una bambina, per una donna in generale, rappresenta un dramma psichico oltre che fisico. In questi anni siamo riusciti a mettere in piedi due ambulatori dove operatori italiani si sono specializzati in pratiche di deinfibulazione. All’inizio degli anni Novanta sono arrivate in Italia molte donne somale e abbiamo riscontrato che la maggior parte di loro, proprio perché “cucite”, erano costrette a partorire con il taglio cesareo, con tutte le conseguenze che ne conseguivano, tra cui soprattutto il bisogno di assistenza nelle attività quotidiane più semplici, senza poter contare, proprio per la loro condizione di migranti, sulla rete di sostegno di mamme e zie. Ne risultava che i loro figli venivano allontanati in istituti perché “non potevano essere seguiti adeguatamente”. Con la pratica di deinfibulazione abbiamo risolto alla base questo problema ed è stato anche l’inizio di un’opera di sensibilizzazione verso le madri, affinché non costringessero le loro figlie a sottomettersi a questa pratica. Oggi posso dire di aver salvato in questo modo con l’associazione ADIR almeno 2000 bambine.”
Come è cambiata in questi anni la condizione della donna in Africa?
Ismail: “Durante la Guerra Fredda la Somalia era sotto il blocco dell’ex Unione Sovietica. Aveva una struttura socialista, progressista. Era, sì, una dittatura, ma almeno la condizione sanitaria, l’istruzione erano garantite. Dopo l’89 siamo ritornati ad una situazione come dire ancestrale. La donna si è resa fantasma, sparendo piano piano dalla società. Dopo un periodo, per così dire, di Illuminismo, vive oggi tutte le caratteristiche dell’Islam odierno. Per fare un esempio, la donna somala musulmana oggi porta il velo, cosa che prima non accadeva. Tutta la nostra cultura matriarcale si è dovuta camuffare. In Somalia si sono sempre ad esempio celebrati matrimoni tra i clan per scongiurare massacri tra loro. Il ricordo di questi legami di sangue permette oggi la cura trasversale dei bambini orfani. E questo è un lavoro silenzioso portato avanti dalle donne.”

Salvan: “Ciò dimostra come i bambini, gli adolescenti e le donne, anche se sono le parti più deboli, sono loro gli anelli su cui si può lavorare per cambiare davvero qualcosa. Sono stato nel Sudan, nel Darfur, e ho visto un gruppo di ragazze di 16/17 anni convincere le donne ad incontrarsi nei campi, sotto ad un albero, dove era possibile insomma, per imparare cosa fare per tutelare da malattie e infezioni i bambini e la loro famiglia. Con uno strumento così semplice come questa specie di calendario in cotone, fabbricabile a basso costo, le ragazze davano le prime istruzioni per una maggiore igiene del corpo e della casa. Proprio perché erano giovani e dello stesso clan erano in grado di esercitare maggiore influenza sulle donne che ad esempio la figura di un medico. Allo stesso modo, anche in Europa i giovani possono esercitare un ruolo importante. Proprio in questo mese, in contemporanea con il G8 di Gleeneagles, 12 ragazzi, 8 dei paesi più poveri e 4 dei paesi industrializzati, si sono incontrati per redarre un loro documento. Per loro è stata una esperienza fondamentale per confrontarsi e fare conoscenza. Questo fa la differenza.

Anche nel caso degli Obiettivi del Millennio, adottati all'unanimità da 189 capi di Stato e di Governo durante il Vertice del Millennio nel settembre 2000 presso le Nazioni Unite, i bambini hanno voluto dire la loro.

Salvan: “Al documento programmatico redatto dai 189 capi di Stato di Governo per risolvere entro il 2015 i problemi cruciali che affliggono il mondo, come ad esempio la fame, la povertà e l’AIDS, i bambini hanno risposto l’anno successivo con un testo scritto da loro in un incontro che ha raccolto 450 bambini da tutto il mondo. Nel documento “Un mondo a misura di bambino”, così il titolo, ci si propone di ridurre la mortalità infantile, di portare a scuola anche le bambine in pari misura con i loro compagni maschi, lottare contro l’AIDS, nella convinzione che solo se mettiamo i diritti dei bambini al primo posto abbiamo un mondo migliore per tutti. E’ una risposta che guarda più ai diritti che all’assistenza. La comunità internazionale risponde prontamente all’emergenza, ma non si rende conto - o non vuole vedere- gli tsunami quotidiani che flagellano l’Africa e altri Paesi poveri. Nella comunicazione dei mass media, ad esempio, il bambino viene spesso strumentalizzato per muovere a compassione il pubblico. Dobbiamo essere più coerenti, invece, e mettere il bambino al centro delle nostre politiche.”

In una società che dà più importanza all’aspetto economico, scientifico, tecnico, come esercitare certi ideali?
Ismail: “Io dico che la politica e la cittadinanza viaggiano su due binari diversi. La società ha trovato i suoi strumenti ed è più avanti della politica. Cito il caso di sei ragazzini ROM che vivono nella mia città Rho, vicino a Milano. Da vent’anni la famiglia vive nella città in un campo nomadi e i loro figli vanno a scuola con i nostri figli, giocano con loro, vanno alle feste di compleanno. Dall’oggi al domani la loro famiglia si è vista recapitare l’ordine di sgombero per motivi di sicurezza, ed ora è costretta a vivere ospitata da altre famiglie nomadi della città. In loro sostegno si sono mobilitate le mamme del quartiere con un giro di telefonate brevissimo. E poi dicono che in Italia la società non vuole vedere gli immigrati. Il dialogo invece c’è e bisogna perseguirlo.”

Che cosa possiamo fare noi, nel nostro piccolo? - domanda una persona del pubblico
Salvan: “Informarsi e fare controinformazione. Sostenere solo le associazioni che vi danno un riscontro in termini di informazioni e svolgono azioni costruttive e durature nel tempo. Non è detto che il processo di pace parta solo dalle zone colpite.”
Ismail: “Siamo chiamati ad indignarci e non cadere nell’indifferenza. Dobbiamo riprendere la carità, di qualsiasi religione essa sia. Le parole come “terrorista”, “negro” sono pietre per i nostri figli. Mohammed, il compagno di classe di mio figlio, non deve pagare per le politiche che non ha scelto.”
a cura di Denisa Gollino per Unimondo

Fonte: http://unimondo.oneworld.net/article/view/115826/1/

 

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