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Homo Ludens (di Paola Carini)
1.08.2005
Nel bel mezzo del secondo conflitto mondiale, quando gli ingranaggi infernali della guerra stavano stritolando una buona fetta di umanità – complessivamente 50 milioni di vittime, il 2% della popolazione di allora – apparve in Svizzera la versione in lingua tedesca di “Homo Ludens” dello storico olandese Johan Huizinga. Per ammissione dell’autore, la tesi che sorregge il libro era un’idea coltivata sin dal 1903, ma la prima edizione fu del 1938. Se si pensa al contesto storico e politico dell’epoca, l’uscita di questo libro è un fatto piuttosto singolare: il concetto principale è che ogni civiltà si sviluppa grazie al gioco e conserva, in maniera più o meno marcata, uno spirito ludico. Il gioco, secondo Huizinga, ha una funzione culturale molto seria, da qui la sua classificazione della specie umana come ludens, appunto.
Criticato dai posteri per l’uso spregiudicato delle fonti a sostegno delle sue tesi, Huizinga ha comunque il merito di aver indagato in maniera originale l’importanza storica del gioco in rapporto a varie espressioni umane come il linguaggio, la legge, l’arte, la poesia, la guerra, la filosofia. Fondamentale è la sua convinzione che attraverso il gioco ogni società esprima la propria interpretazione della vita e del mondo, ed è proprio questa chiave di lettura a spiegare perfettamente il senso del gioco per culture che Huizinga non prese a riferimento se non marginalmente: le culture del continente americano.
Dal 1999 la Traditional Games Society organizza, in collaborazione con sette riserve del Montana e due dello stato canadese dell’Alberta, una manifestazione di giochi tradizionali indiani che richiama centinaia di curiosi di tutte le età e volontari di varie nazioni tribali. Spostandosi di anno in anno nelle riserve più povere, l’evento innesca il turismo e permette la riscoperta di pratiche ludiche antiche a beneficio della tribù e con grande divertimento dei partecipanti, che imparano a fabbricarsi gli strumenti (archi, frecce, mazze e giochi per bambini) per giocare e per sfidarsi. Si tratta di più di 25 giochi differenti: dallo shinney, un tipo di hockey su erba, al lacrosse, dalla corsa a piedi, in canoa e a cavallo (una sorta di triathlon) al run-and-scream, ossia correre più lontano possibile urlando a pieni polmoni, dall’atlatl (il lancio di dardi o lance con un bastone uncinato fatto roteare) a varie corse a cavallo, tra cui l’originalissima gara vinta dal cavallo più lento.
Lo scopo originario che avevano queste attività è piuttosto ovvio: con l’atlatl le popolazioni autoctone del Nord e del Sud America riuscivano a perforare le armature spagnole spargendo il terrore tra i soldati che credevano di essere inattaccabili; praticando lo shinney acquisivano l’elasticità e la coordinazione indispensabili per sopravvivere a nemici ed animali, mentre il lancio delle frecce era un ottimo allenamento per la caccia. Ma ognuna di queste discipline aveva anche un altro fine oltre al divertimento o allo spirito di competizione. I giocatori di toli, una sorta di lacrosse tutt’oggi giocato in tornei annuali, erano anche i migliori guerrieri che le città federate choctaw possedevano. Le gare tra le varie città avvenivano secondo schemi e regole ben precise in cui i partecipanti erano antagonisti con pari dignità e pari diritti. Giocando, essi sublimavano – si direbbe oggi – tensioni e rivalità altrimenti pericolosamente latenti, mantenevano la coesione sociale, compattavano le alleanze. Il rispetto per le regole del gioco era il rispetto per le leggi e per l’ordine sociale; sgarbi e infrazioni anche piccole significavano la squalifica dalla gara e dalla propria comunità. Ecco perché, visti da questa prospettiva, il toli e gli altri giochi avevano una qualità che gli sport moderni, confinati nell’agone della pura competizione, non possono certo possedere. Una condotta corretta in ambito ludico era una cosa estremamente seria.
Da 34 anni gli otto pueblo situati nel nord del New Mexico (Tesuque, San Juan, San Idelfonso, Santa Clara, Taos, Picuris, Nambe, Pojoaque) a metà luglio organizzano una fiera di arte e cultura nativo americana. Per turisti e visitatori è un’occasione unica per acquistare artigianato pueblo ma anche tlingit, diné, anishinabe, apache, cherokee e sioux, e vedere danze come la Corn Dance che non si potrebbero né osservare né tanto meno fotografare in altri periodi dell’anno. Si tratta ovviamente di versioni profane di riti particolarmente importanti per le popolazioni pueblo anche al giorno d’oggi. Punta di diamante di questa grande manifestazione è la 5 km, una corsa per adulti e ragazzi intitolata a Po’pay, leader del pueblo di San Juan che nel 1680 diede inizio alla rivolta contro l’occupazione spagnola. E, tra le varie discipline, la corsa sembra essere l’elemento comune alle popolazioni autoctone sia del Nord che del Sud America.
I corridori pueblo, istruiti da Po’pay, coordinarono l’insurrezione di più di 70 villaggi. Correndo distanze anche superiori ai 600 chilometri, essi raggiunsero ciascun villaggio sciogliendo, di volta in volta, uno dei nodi delle corde di yucca che si portavano appresso. Le corde erano un ingegnoso conto alla rovescia: quando l’ultimo nodo fosse stato sciolto, tutti i villaggi avrebbero attaccato gli spagnoli contemporaneamente. L’indipendenza ebbe però vita breve: dodici anni dopo gli spagnoli misero nuovamente a ferro e fuoco quei territori. Dei più di settanta villaggi sparsi lungo il Rio Grande prima dell’invasione spagnola, ne sopravvivevano solo 19 alla fine del 1700.
Sebbene questo episodio di resistenza sia poco conosciuto, sebbene la religione cattolica imposta con la violenza abbia finito con l’infiltrarsi nella vita quotidiana, al giorno d’oggi la spiritualità tradizionale sopravvive floridamente: la chiesa non è mai riuscita a sostituire completamente la kiva – la camera cerimoniale che funge anche da luogo di incontro sociale da più di mille anni.
Il ruolo dei corridori come messaggeri è cosa nota – erano importanti anche tra gli inca, ad esempio - ma, al di là di questo fine pragmatico, è l’inedito aspetto spirituale a dare alla corsa dei nativo americani una rilevanza tutta particolare. Tra i mesquakie (gli indiani fox) esisteva un gruppo di corridori di cui gli antropologi hanno ignorato l’esistenza fino alla metà del Novecento. Il primo ad individuarne la presenza fu l’antropologo Truman Michelson, che negli anni Venti descrisse questi peculiari atleti paragonandoli a ciò che a lui era più familiare: i monaci. Il celibato, una dieta particolare, la dedizione al loro compito li rendeva, agli occhi di Michelson, molto simili ai monaci cristiani; in realtà essi incarnavano la weltanschauung, ovvero il modo di concepire il mondo e la vita, propria del loro gruppo tribale. La velocità, l’agilità, il movimento senza sforzo apparente, le strabilianti distanze coperte in poche ore erano qualità che il singolo corridore non poteva che ricevere in virtù della comunione con il mondo animale: dopo lunghi giorni di meditazione e di digiuno, il corridore otteneva in dono la velocità dal colibrì, l’agilità dal cervo, la forza dall’orso, e così via. Questo legame tra gli esseri umani e il resto del creato è tipica di tutte le culture autoctone del continente, e non si tratta né di una credenza ingenua né di una “pratica magica”, quanto di una spiritualità – cioè la scelta di vivere ascoltando il proprio spirito, o la propria anima, se volete – il cui esito è quello di unire il singolo ad ogni altro essere vivente in una rete di connessioni che sorreggono sia l’essere umano che il mondo. Osservata da questa prospettiva la corsa era davvero un “gioco” come lo intendeva Huizinga: un mezzo con cui decodificare e al tempo stesso dare un senso alla vita umana e al mondo.
In molti altri gruppi tribali esistevano corridori con lo stesso ethos, lo stesso ruolo sociale, le stesse capacità: oltre che tra i mesquakie ce n’erano tra i sauk, i kickapoo, i creek, gli osage, gli indiani della California, i mohave, la confederazione iroquois. Una vera e propria rete stradale esisteva sia nel Nord che nel Sud America, dove collegava l’Ecuador del Nord al sud del Cile. Un tempo percorse da messaggeri dalle straordinarie capacità di leggerezza, potenza e resistenza, queste strade sono diventate invisibili come quei corridori che, “veloci come il vento”, compartecipavano al mistero della vita e del mondo lasciando solamente lievi e fugaci impronte sulla terra.
Paola Carini

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