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Tre articoli di Lucio Garofalo
16.08.2005

DUE PESI E DUE MISURE… DI VOTO

Un po’ in ritardo ho provato ad accostare due momenti elettorali che, malgrado la vicinanza temporale, mi sono apparsi distanti se non in netta antitesi tra loro, in termini sia quantitativi che qualitativi. Mi riferisco alle elezioni amministrative di Aprile e al referendum del 13 Giugno scorso.

Nell’arco di 2 mesi, in moltissime zone d’Italia i nostri concittadini sono stati chiamati a votare per ben 3 volte: al primo turno delle amministrative, al secondo turno - laddove si è dovuto ricorrere al ballottaggio - e per il referendum.

Era facilmente prevedibile che qualcuno si potesse stancare, o quantomeno non avesse più tanta voglia di recarsi alle urne, tenendo conto del caldo afoso, dell’opera di oscurantismo e disinformazione svolta dai mass-media e dalla classe dirigente nazionale, senza considerare altri motivi, più contingenti e secondari, che hanno pesato negativamente in quanto hanno contribuito a distogliere la gente dal sano proposito di andare a votare.

Infatti, nel caso delle elezioni amministrative l’affluenza alle urne è stata elevata, quasi da primato nazionale. Invece, in occasione del voto referendario il primato è stato diametralmente opposto, nella misura in cui il tasso relativo all’astensionismo è risultato il più alto nella sequenza storica dei referendum nazionali e non solo.

Mi sorge dunque spontaneo un interrogativo: perché la gente diserta in massa le urne elettorali quando può intervenire sui propri problemi e bisogni, mentre affolla i seggi quando in gioco ci sono più che altro squallidi scopi di potere che, almeno in teoria, le dovrebbero essere estranei?

Non è questo un comportamento collettivo alquanto contraddittorio, almeno in apparenza?

I cittadini italiani, non solo sono stati indotti a non votare per il referendum, sono stati esortati a recarsi al mare per sfuggire al caldo, addirittura sono stati "deportati" sotto gli ombrelloni - ovviamente il mio vuol essere un commento ironico.

Tuttavia, pensandoci seriamente mi ripugna constatare come il diritto-dovere di voto venga valutato secondo la logica, assolutamente becera, dei "due pesi e due misure", cioè secondo le diverse convenienze politiche, in base a scopi puramente economici di stampo classista.

Giudico ignobile cercare in tutti i modi di incoraggiare i cittadini a votare in massa per promuovere un ceto politico che mira solo a perpetuare il proprio potere e si stringe intorno a meschini interessi che premiano solo un’esigua minoranza di affaristi della politica, mentre con ogni mezzo si tenta di dissuadere la gente dall’andare a votare quando la posta in palio è costituita dai diritti inalienabili di ogni cittadino, cioè quando si tratta di espandere l’area della legalità costituzionale su cui si fondano il benessere e la giustizia sociale e da cui scaturiscono i massimi vantaggi di natura politico-democratica dell’intera comunità nazionale.

E’ probabile che il referendum sia diventato un "arnese" ormai abusato, un "anticaglia" politicamente inservibile in quanto sembra non avere più alcuna validità ai giorni nostri.

Di sicuro, con le attuali regole, esso non rappresenta più una misura vincente ma costituisce una scelta assolutamente fallimentare.

Mi chiedo come si sia potuto compiere un simile sperpero, nella misura in cui è stato dissipato un prezioso strumento di democrazia diretta concesso ai cittadini dalla nostra Costituzione.

Insomma, dopo aver constatato quel dato di fatto di cui non si può negare l’evidenza, non sarebbe male compiere uno sforzo per cercare di svelare l’intreccio causale che è all’origine del problema, ossia le ragioni che hanno determinato lo svuotamento di forza e di senso dell’istituto referendario.

Se si pensa che in altre nazioni dell’occidente, in modo particolare negli Stati Uniti d’America, il tasso dell’astensionismo elettorale ha raggiunto un livello cronico, oltrepassando quote da primato mondiale ( basti ricordare, ad esempio, che il presidente Bush è stato rieletto in pratica con il 20 % dei consensi effettivi del popolo statunitense), si evince facilmente come sia urgente, oltre che opportuno, intervenire con provvedimenti legislativi volti a modificare alcuni meccanismi elettorali ormai antiquati, provando anzitutto ad abbassare il quorum necessario per convalidare una consultazione referendaria, ma non solo.

Ebbene, il recente risultato referendario, se è da ritenersi deludente, conferma soltanto una tendenza in atto già da molti anni che, con il voto del 13 Giugno scorso, ha raggiunto il suo limite storico, nella misura in cui è da tempo che l’istituto del referendum ha cessato di essere uno strumento utile per promuovere ed eventualmente vincere determinate battaglie politico-sociali, concernenti questioni vitali per una democrazia ed uno stato di diritto.

La spinta positiva, in senso democratico-partecipativo, dell’istituto referendario, ha funzionato soprattutto negli anni ’70, in occasione dei referendum sul divorzio e sull’aborto, esaurendosi in quella fase. Non c’è dubbio che tale forza propulsiva si è dispiegata soprattutto in un contesto storico più generale in cui era prevalente l’azione progressista esercitata dai partiti politici e dai movimenti sociali negli anni che intercorrono dal 1968 al 1977. In quel decennio la prassi e la funzione dei partiti e dei movimenti politici, dei sindacati e di altre istituzioni democratiche, erano assai diffuse e rilevanti nella nostra società come anche in altre nazioni dell’occidente.

In un certo senso l’attuale processo di crisi dell’efficacia politica dell’istituto referendario, come pure di altri organi della democrazia liberal-borghese, rappresenta uno dei principali indicatori di una situazione più articolata e complessa che investe l’intera società contemporanea.

Mi riferisco al declino della democrazia nel suo complesso, non solo nelle sue forme più dirette e partecipative - come nel caso del referendum o di altre pratiche assembleari -, ma altresì nella sua versione classica di origine liberale, una crisi che assale l’ordinamento parlamentare borghese, che è un cardine della tradizione politico-costituzionale dell’occidente.

Un simile argomento richiede un ampio spazio di riflessione e non può risolversi in poche righe perché risulterebbe svilito e banalizzato, nella misura occorre affrontare il tema della cosiddetta "globalizzazione neocapitalista", o meglio della "globo-colonizzazione" del mondo secondo un modello economico-sociale e politico-istituzionale che è in fase di costruzione e di imposizione su scala planetaria ma che è di provenienza anglosassone.

Certo, sussistono altri elementi che hanno concorso alla progressiva decadenza dell’istituto referendario. Si tratta di fattori episodici e contingenti, comunque poco rilevanti, ma che si collocano nel quadro più vasto della crisi della democrazia e della sovranità degli stati nazionali, ormai soppiantati da apparati decisionali più forti e da nuovi assetti di comando e di gestione dell’economia e della società, che poco o nulla hanno di democratico, nella misura in cui si tratta di organismi non elettivi ma di carattere economico e verticistico (si pensi al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale, alle multinazionali, eccetera).

La prepotente ascesa di tali strutture di controllo economico-politico a livello planetario, sta ridimensionando, se non addirittura svuotando il potere dei vecchi stati nazionali basati sulla democrazia parlamentare ed ispirati da ragioni e sentimenti di origine ottocentesca, essendo il liberalismo una corrente politico-culturale nata e sviluppatasi nel secolo XIX, sopravvissuta fino al XX secolo ma divenuta ormai anacronistica. Ciò è vero non perché lo afferma il sottoscritto, ma perché lo attesta la realtà della storia, con la sua cruda e spietata forza di persuasione.

In questa nuova dimensione, senz’altro riduttiva ed umiliante, della politica e degli stati nazionali moderni, è possibile cogliere e comprendere la funzione di un sistema democratico-rappresentativo che si delinea con tratti sempre più autoritari, al punto che oggi è lecito parlare di "democrazia autoritaria", con tutti gli effetti devastanti e degenerativi che ciò comporta sul terreno delle istituzioni politico-democratiche più tradizionali, tra cui il referendum.

Lucio Garofalo

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MAI PIU’ HIROSHIMA E NAGASAKI

In questi giorni di un’estate che ormai volge al termine, in varie parti del mondo si sono svolte le tristi commemorazioni legate ai 60 anni trascorsi dalle terribili giornate del 6 e del 9 agosto 1945, quando gli americani gettarono senza pietà le prime bombe atomiche della storia a spese delle città di Hiroshima e Nagasaki, che vennero rase totalmente al suolo. Soltanto nei primi mesi successivi alla deflagrazione nucleare i morti furono oltre 200 mila. Secondo stime attendibili, fino ad oggi le vittime accertate sarebbero almeno 350 mila.

Quelle dell’agosto del 1945 sono state le uniche volte (per fortuna) in cui le armi nucleari sono state impiegate in un conflitto bellico contro popolazioni civili ed inermi, sterminando intere generazioni e annichilendo intere città.

E’ bene ricordare che la responsabilità e la paternità storica di tali massacri (veri e propri crimini contro l’umanità, come qualcuno li ha giustamente definiti) vanno ascritte agli Stati Uniti d’America, che non hanno esitato un attimo ad usare armi di distruzione totale per vincere la guerra. In modo particolare, occorre riflettere sulla seconda bomba atomica, sganciata su Nagasaki.

Secondo molti storici si è trattato di un atto criminale assolutamente inutile ed evitabile, eppure è stato ugualmente compiuto per due ragioni fondamentali. La prima, di natura scientifica, era che la bomba lanciata su Nagasaki, essendo composta di plutonio, e non di uranio arricchito come quella gettata su Hiroshima, aveva bisogno di essere sperimentata (naturalmente, tale ragionamento è totalmente cinico e spregiudicato). Il secondo motivo era di ordine strategico-politico, nella misura in cui la seconda bomba era davvero inutile per vincere la guerra contro il Giappone, un Paese ormai stremato, affranto e prostrato, completamente alla mercè dei vincitori, per cui apparve subito evidente un diverso scopo della seconda esplosione nucleare, ossia un atto in funzione palesemente antisovietica. In tal senso, le bombe su Hiroshima e Nagasaki, pur essendo le ultime della seconda guerra mondiale, furono considerate come le prime della "guerra fredda". Insomma, si trattava di un chiaro segnale teso a far capire ai sovietici e al mondo intero chi erano i nuovi padroni della storia.

Negli anni successivi al 1945, ossia nel secondo dopoguerra, le armi atomiche furono adottate da tutte le principali potenze mondiali: l’Unione Sovietica l’ottenne nel 1949 (grazie soprattutto alla decisione di alcuni scienziati che avevano concorso alla realizzazione della bomba nucleare per il governo nordamericano, al fine di ristabilire un giusto e provvidenziale equilibrio tra le parti avverse), la Gran Bretagna nel 1952, la Francia nel 1960, la Cina nel 1964.

In questo periodo, segnato da una prima proliferazione degli armamenti atomici, si determinò un clima che venne definito di "GUERRA FREDDA", nel quale i due blocchi politico-militari contrapposti (la NATO, tuttora esistente e che fa capo agli U.S.A., e il Patto di Varsavia, che ruotava intorno all’Unione Sovietica) erano coscienti di annientarsi vicendevolmente con il solo impiego delle armi atomiche. Questa era la teoria della "distruzione mutua assicurata", alla base del cosiddetto "EQUILIBRIO DEL TERRORE", ossia della strategia della deterrenza nucleare che, in qualche occasione, riuscì a scongiurare il rischio di un conflitto termonucleare totale.

Tale "equilibrio del terrore", benché utile deterrente sul piano strategico, tuttavia non impedì un’enorme proliferazione degli arsenali atomici sia ad Ovest che ad Est. Al contrario, le armi nucleari divennero sempre più numerose, ma soprattutto più sofisticate e complesse, quindi più potenti, al punto che confrontate con quelle successive le bombe gettate su Hiroshima e Nagasaki apparivano come "giocattoli".

Gli arsenali atomici a disposizione dei due blocchi avversari (Est e Ovest: nemici più sulla carta, ma nella realtà complici rispetto alla spartizione economica e ideologica del mondo) erano potenzialmente in grado di disintegrare il nostro pianeta, non una, ma decine di volte!

Nel corso degli anni Ottanta, il dialogo tra Reagan e Gorbaciov condusse alla stipulazione dei trattati START I e START II, che sancivano una graduale riduzione degli armamenti atomici posseduti dalle due superpotenze. In quegli anni, esattamente nel 1985, uscì un film intitolato "War games" (tradotto in italiano "Giochi di guerra") che racconta la storia di un brillante e geniale ragazzino di Seattle che, giocando col suo computer, riesce ad inserirsi nella rete informatica della difesa nucleare statunitense, provocando (ovviamente, nella finzione cinematografica) il pericolo di un conflitto termonucleare totale, pericolo poi scongiurato. Cito questo film per far comprendere come in quegli anni la percezione della gravità dei rischi di un conflitto atomico che avrebbe potuto causare l’autodistruzione totale del genere umano, era molto maggiore di oggi.

Eppure la situazione odierna è molto più pericolosa di quella che ho appena descritto e che si riferisce al periodo della "guerra fredda". Attualmente, gli Stati che dichiarano di possedere armi nucleari e dunque fanno ufficialmente parte del cosiddetto "Club dell’atomo" sono esattamente otto: Stati Uniti d’America, Russia, Cina, Regno Unito, Francia, Israele, India e Pakistan.

Invece, gli unici Paesi al mondo che hanno pubblicamente e intenzionalmente rinunciato a programmi di riarmo nucleare sono: il Sudafrica, probabilmente il Brasile, e alcune repubbliche dell’ex-U.R.S.S., ossia Ucraina, Bielorussia e Kazakistan.

Inoltre, la possibilità (non solo teorica) che alcune armi atomiche come le cosiddette "bombe sporche" (che non costano come le armi atomiche vere e proprie e non esigono particolari competenze scientifiche, se non quelle, alquanto diffuse, che servono a costruire una bomba tradizionale) possano cadere nelle mani di gruppi terroristici, può forse offrire una vaga idea dell’elevata pericolosità dell’odierna situazione internazionale, avvolta in quella che è stata convenzionalmente chiamata "la spirale guerra-terrorismo", ossia una realtà caratterizzata da crescenti tensioni e contraddizioni, da enormi conflittualità, aggravate dalla politica della cosiddetta "guerra preventiva" made in U.S.A. che, di fatto, alimenta e rafforza ulteriormente le spinte e le tendenze oltranziste ed estremiste in ogni angolo della Terra.

L’odierna situazione planetaria è dunque molto più insidiosa del passato, soprattutto dopo il crollo del muro di Berlino avvenuto nel 1989 e dopo il disfacimento dell’Unione Sovietica e del suo "impero", ma soprattutto dopo l’11 settembre 2001, quando sono state rilanciate la ricerca e la produzione di nuove generazioni di bombe nucleari più piccole e più facili da utilizzare.

Nonostante ciò, la consapevolezza del pericolo rappresentato dagli arsenali atomici da parte dell’opinione pubblica mondiale, si trova ad un livello molto più basso rispetto agli anni della "guerra fredda". Anni in cui l’equilibrio tra le due superpotenze (U.S.A. e U.R.S.S.) esercitava un potentissimo effetto deterrente. Oggi quell’equilibrio non esiste più (è rimasto solo il "terrore", scusate la battutaccia). Anzi, la situazione è profondamente squilibrata, caotica ed instabile, e gli U.S.A. non sono in grado di gestirla da soli attraverso un ruolo di gendarmeria planetaria che si sono auto-attribuiti con arroganza e che li ha condotti all’isolamento più totale ed infausto.

Oggi assistiamo ad un insidioso rilancio della ricerca nucleare per fini militari, che vede una responsabilità ed un coinvolgimento anche del nostro Paese. Basti pensare che all’aeroporto militare di Ghedi (Brescia) e nella base americana di Aviano sono pronte all’uso almeno 90 testate nucleari!

Per far capire l’estrema pericolosità derivante dall’odierno scenario internazionale, voglio ricordare il 2002, quando India e Pakistan (che già nel 1998 avevano condotto alcuni test nucleari) si trovarono sull’orlo di un conflitto per il controllo del Kashmir (una terra al confine tra i due Stati, famosa per un tessuto morbido e leggero di lana omonima, ricavata da una particolare razza di capre che vive in quella regione), una contesa che avrebbe potuto condurre all’uso di armi nucleari. Esistono alcune micro-potenze regionali, quali la stessa Israele, l’India e il Pakistan, che detengono arsenali atomici ed assumono atteggiamenti ostili e belligeranti verso gli Stati confinanti.

Naturalmente sarebbe ipocrita non riconoscere che la più grave minaccia proviene da quelle superpotenze mondiali come gli U.S.A., la Cina e la Russia, che mirano ad una nuova spartizione geopolitica del mondo e che agiscono in modo aggressivo ed espansionistico sul terreno economico-commerciale, entrando spesso in conflitto tra loro.

Si pensi all’accesa competizione commerciale tra U.S.A., Europa e Cina, oppure alla rivalità monetaria (una vera e propria guerra monetaria) tra il dollaro e l’euro.

Certo, dal 1945 ad oggi tutte le guerre finora combattute ed anche quelle tuttora in corso (si pensi allo stato di guerra-guerriglia permanente in Iraq) non hanno mai visto il ricorso ad armi atomiche, bensì solo a quelle convenzionali. Addirittura, in alcuni conflitti etnici sono stati perpetrati veri e propri genocidi utilizzando armi primitive e rozze, ad esempio sono stati commessi spaventosi massacri a colpi di machete, che è un pesante coltello dalla lama lunga e molto affilata.

Finora ho fornito una ricostruzione storica il più possibile fedele e lineare, in materia di armamenti nucleari, provando ad evidenziare un confronto tra passato e presente, tra gli anni della "guerra fredda" e la realtà odierna che, come ho già spiegato, appare assai più pericolosa, benché la coscienza della gente comune sia indubbiamente molto meno diffusa e profonda che in passato.

Pertanto, voglio citare un brano tratto da un articolo di Giorgio Bocca (apparso nella rubrica "L’antitaliano"), nel quale Bocca scrive testualmente:

"Già nel 1945 avremmo dovuto capire che l’apocalisse era ormai entrata nella normalità. Scoppia la prima atomica a Hiroshima e sui giornali dell’Occidente, anche sui nostri, la notizia venne data a una colonna in basso e non destò particolare emozione. Aveva ucciso in un colpo 100 mila persone e ne aveva avvelenate a morte altrettante. Non se ne sapeva molto, è vero, ma in breve si capì che era l’arma della distruzione totale, ma l’Occidente civile in sostanza non fece obiezione: la bomba segnava in pratica la fine della guerra, perché condannarla?"

In altri termini, il fine (la conclusione della seconda guerra mondiale) ha giustificato il mezzo, ovvero il ricorso alla bomba H, un terrificante strumento di distruzione totale.

Oggi, più che nel passato, questa perversa logica "machiavellica" del "fine che giustifica i mezzi" non può e non deve più essere tollerata, ma va respinta con fermezza e abbandonata in modo definitivo, pena l’auto-annientamento dell’umanità e la dissoluzione di quasi ogni forma di vita presente sul nostro pianeta.

Le cause delle guerre, siano esse convenzionali o meno, sono fondamentalmente le stesse: il possesso e il controllo della terra, dell’acqua, del petrolio o di altre preziose materie prime, lo sfruttamento dell’uomo e l’oppressione di un popolo da parte di un altro popolo, ecc. Queste sono le ragioni principali che possono scatenare un conflitto bellico. Il fatto poi che alla guerra condotta con armi convenzionali si sostituisca la guerra "termonucleare", non cambia nulla alle cause, alla natura e al significato di classe della guerra medesima.

Tuttavia, la differenza più evidente e innegabile tra guerre tradizionali e guerra nucleare, sta nel fatto che le armi atomiche sono strumenti di DISTRUZIONE TOTALE: un "dettaglio" che non è certamente trascurabile o sottovalutabile.

Dunque, voglio concludere con un appello che, per quanto possa apparire ingenuo e utopistico, è più che mai utile e necessario alla salvezza dell’intera umanità:

BANDIAMO LE ARMI NUCLEARI,

BANDIAMO TUTTE LE ARMI,

BANDIAMO LA GUERRA DALLA NOSTRA VITA!

Lucio Garofalo

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DROGA E DISAGIO GIOVANILE

Il problema delle tossicodipendenze non è una questione di ordine pubblico, benché come tale venga considerata, rinunciando ad un’analisi razionale del fenomeno e ad una rigorosa prassi politico-sociale, per abdicare a favore dell’azione poliziesca e invocare una crescente militarizzazione del territorio. Tale scelta politica, non solo non ha mai eliminato o dissuaso determinati atteggiamenti ritenuti "devianti", ma al contrario li ha ulteriormente aggravati.

E’ indubbio che alcune sostanze, come le cosiddette "droghe pesanti", siano letali, per cui chi ne abusa rischia la morte; ma è altrettanto certo che la pericolosità di simili droghe, in quanto proibite, anzi proprio perché proibite, venga notevolmente amplificata.

Del resto, qualsiasi comportamento sociale che produca effetti nocivi per la salute psicofisica delle persone (si pensi anche all’abuso di superalcolici, al consumo eccessivo di nicotina o all’assunzione abituale di psicofarmaci), nella misura in cui venga ridotto ad oggetto di ordine pubblico, perché vietato e perseguito penalmente, potrebbe far salire il livello della tensione sociale, degenerando in atti criminali condannati alla clandestinità e alla disapprovazione sociale e determinando una crescente spirale di violenza.

Il problema delle tossicodipendenze non si può più fronteggiare usando la forza pubblica, o attuando progetti di segregazione sociale, come avviene in alcune "comunità". Al contrario si deve prendere coscienza della reale natura del problema, dissimulata sotto una veste deformata dalle reazioni più irrazionali messe in moto dal sistema vigente. Bisogna rendersi conto della pericolosità sociale delle risposte repressive ed alienanti scatenate dal regime proibizionista, ormai fallito.

Pertanto, sgombrando il campo da ogni luogo comune - come la tesi che equipara le "droghe leggere" a quelle "pesanti"- , il problema delle tossicodipendenze appare per quello che in effetti è: una questione di carattere socio-culturale ed educativo, da un lato, ed una grave emergenza sanitaria, dall’altro. Pertanto, credo che si debba perseguire una duplice finalità:

- avviare una campagna di sensibilizzazione, di prevenzione e di controinformazione politica, per abbattere lo stato di ignoranza che genera pregiudizi, paure ed eccessi di allarmismo sociale;

- intraprendere una serie di azioni per mettere il territorio in condizione di fronteggiare l’emergenza sanitaria, che presuppone quantomeno l’esistenza di un presidio di pronto intervento, il che comporta un rilancio della sanità pubblica di fronte al degrado esistente.

Questo articolo non prescrive alcuna soluzione, ma si propone di suscitare un serio dibattito a partire dall’innegabile realtà del disagio giovanile, che richiede nuovi e più incisivi strumenti di indagine e di prassi politico-sociale, finora mai concepiti, e tantomeno messi in opera.

La questione del disagio giovanile è da tempo oggetto di un’ampia rassegna di studi, di analisi e di ricerche, e malgrado ciò non si conoscono ancora risposte efficaci, mentre l’universo giovanile continua a manifestare aspre e dure contraddizioni, a cominciare dall’emergenza di nuove forme di tossicodipendenza e di devianza troppo spesso sottovalutate.

Preciso subito che, rispetto al tema del disagio esistenziale dei giovani (benché occorra ammettere che il disagio non è una condizione esclusivamente giovanile in senso strettamente anagrafico, ma appartiene purtroppo anche ad altre categorie di persone, come ad esempio gli anziani), si dovrebbero tener presenti alcune nozioni che non sono affatto ovvie né superflue.

E’ noto che il fenomeno del "disagio" o, per meglio dire, della "disobbedienza", della "trasgressione", costituisce una caratteristica fisiologica, quindi ineludibile ed inscindibile, dell’esistenza giovanile, in modo specifico della fase adolescenziale.

Infatti, gli psicologi fanno riferimento alla tappa evolutiva della pubertà, descrivendola come "età della disobbedienza", in quanto momento assai importante e delicato per lo sviluppo psicologico e caratteriale dell’individuo in giovane età, ossia del soggetto in fase di crescita e di cambiamento, non solo sotto il profilo fisico-motorio e dimensionale, ma anche sul versante mentale, affettivo e morale. Proprio attraverso un atto di rifiuto e di negazione dell’autorità incarnata dall’adulto - sia esso il padre, il professore o il mondo degli adulti in generale -, l’adolescente compie un gesto vitale di autoaffermazione individuale, per raggiungere un crescente grado di autonomia della propria personalità di fronte al mondo esterno. Senza tale processo di crisi e di negazione, di rigetto e di disobbedienza, vissuto in genere dal soggetto in età adolescenziale, non potrebbe attuarsi pienamente lo sviluppo di una personalità autonoma, libera e matura, non potrebbe cioè formarsi la coscienza dell’adulto, del libero cittadino. Inteso in tal senso, il disagio acquista un valore indubbiamente prezioso, altamente positivo, di segno liberatorio e creativo, nella misura in cui l’elemento critico concorre in modo determinante a promuovere nell’essere umano, un’intelligenza cosciente ed autonoma, ossia una mente capace di formulare giudizi, opinioni e convinzioni proprie, originali e coerenti, requisito fondamentale per acquisire uno stato di effettiva cittadinanza che non sia sancito solo formalmente sulla carta della nostra Costituzione.

Ebbene, a mio modesto avviso, tale processo di maturazione e di emancipazione non si conclude mai, nel senso che una personalità veramente libera, duttile e creativa, è sempre pronta a reagire, a ribellarsi, a disobbedire, per salvaguardare la propria dignità, la propria libertà, la propria vitalità.

Al contrario, credo fermamente che ci si debba preoccupare dell’assenza, non solo nell’adolescente ma nell’essere umano in genere, di un simile atteggiamento e di un simile stato d’animo, di ansia liberatoria, di desiderio di riscatto e di autoaffermazione, di capacità di rivolta e di disobbedienza, un complesso di sentimenti e di attitudini che suscitano sicuramente motivi di disagio e di crisi, ma sono comunque necessari per una continua maturazione della persona. Mancando tali dinamiche psicologico-esistenziali ci sarebbe da allarmarsi, in quanto non avremmo formato una personalità davvero autonoma, cosciente e matura, ma solamente un individuo passivo, inerte e succube, un conformista vile e pavido, un gregario, insomma un servo.

Quando, invece, il disagio può determinare una situazione davvero inquietante e preoccupante?

Secondo me, quando il disagio non viene rielaborato in chiave critica e creativa, dunque in funzione liberatoria, ma degenera in un malessere devastante, quando produce una condizione esistenziale estremamente alienante e patologica, se non addirittura criminale.

Ebbene, la tossicodipendenza (intesa in senso lato, anche come alcool-dipendenza) costituisce una delle manifestazioni patologiche, devianti ed autodistruttive, che sono la conseguenza di un disagio che non è stato superato in modo cosciente, inducendo comportamenti di auto-emarginazione, di rifiuto nichilistico verso la società, di chiusura egoistica del soggetto in crisi.

Lucio Garofalo

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