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Il matrimonio può attendere
25.08.2005
Di Daniela Del Boca e Alessandro Rosina per www.lavoce.info
Quando un fenomeno con ricadute importanti sulla vita delle persone si diffonde e diventa socialmente accettato, il fatto che la politica lo ignori può essere letto come una conferma sia del grado di distacco della classe dirigente dalla vita dei comuni cittadini, sia del grado di incapacità dei policy maker di cogliere per tempo le trasformazioni sociali in atto e fornire risposte adeguate.
Che le coppie di fatto siano una realtà ormai diffusa e in forte crescita anche in Italia, è quanto dicono tutte le più recenti indagini.
Che a livello politico non si sia finora deciso nulla per regolamentare tale fenomeno, diversamente da tutti gli altri paesi ai quali ci sentiamo culturalmente vicini, è un dato di fatto.
Tra i paesi europei, l’Italia resta la sola a non offrire alcun riconoscimento giuridico alle coppie di fatto etero o omosessuali. Il ritardo è in contrasto con le crescenti pressioni del Parlamento europeo che ha sollecitato gli Stati membri dell’Unione ad adeguare al più presto le proprie legislazioni al fine di riconoscere legalmente la convivenza al di fuori del matrimonio, indipendentemente dal sesso.
Nonostante negli ultimi anni siano state presentate ben dodici proposte di legge - ultima quella Grillini, vicina ai contenuti del Pacs francese - e nonostante tra i presentatori si trovino rappresentanti di forze politiche sia della maggioranza che dell’opposizione, il vuoto giuridico permane.
È quindi da apprezzare la recente apertura di Romano Prodi che, ispirandosi a De Gasperi, va al di là dei suoi principi personali, afferma la necessità di riconoscere i problemi giuridici e civili di tutti coloro che scelgono di vivere insieme stabilmente in forme diverse dal matrimonio e si dichiara favorevole all’adozione del Pacs francese anche in Italia.

Generazioni a confronto

Per le persone omosessuali, salvo che in Olanda e in Spagna, non vi sono alternative alla convivenza. Per le persone eterosessuali, questa scelta può avere ragioni diverse: il rifiuto del matrimonio come istituzione, l’impossibilità (è il caso, in Italia, dei separati che devono aspettare tre anni prima di poter chiedere il divorzio) o la non convenienza a sposarsi, il desiderio di mettere alla prova il proprio rapporto. Nella maggior parte dei paesi occidentali le convivenze sono di tipo giovanile, perciò più vicine al terzo tipo di motivazione.
In particolare, a partire dagli anni Ottanta l’unione di fatto si è imposta come la forma prevalente di inizio della vita di coppia per i giovani dell’Europa nord-occidentale. Tanto che a metà degli anni Novanta, a Nord di Alpi e Pirenei, meno di un terzo delle prime unioni era un matrimonio.
I paesi dell’Europa meridionale per qualche decennio sono sembrati sostanzialmente immuni a questo fenomeno, confinato soprattutto alle coppie ricostituite, sebbene nelle aree metropolitane del Nord Italia i segnali di un cambiamento in atto apparissero già evidenti. A Milano ad esempio, tra le donne nate all’inizio degli anni Sessanta ben una su tre aveva formato la prima unione in modo informale anziché direttamente tramite un legame coniugale. Per la stessa generazione l’incidenza nell’Italia centro-settentrionale era invece poco più del 10 per cento e si scendeva a meno del 5 per cento nel Meridione.
Il confronto con la generazione successiva (le nate alla fine degli anni Sessanta) fornisce però già in modo chiaro l’entità del cambiamento in atto. I numeri parlano di una crescita esponenziale. Si sale infatti a circa una convivenza ogni cinque prime unioni per il dato nazionale, e a una ogni quattro nel Nord-Centro (figura 1).
Per le generazioni ancor più giovani, illuminanti sono i dati sulle intenzioni. Come evidenzia una recente indagine , circa due terzi dei giovani che hanno attualmente attorno ai venticinque anni sono favorevoli alla convivenza. Poco meno del 40 per cento sono quelli che prevedono personalmente di attuarla come forma di prima unione. Oltre la metà ritiene che i genitori accetterebbero senza alcuna opposizione tale loro eventuale scelta. Che il fenomeno sia in forte evoluzione e che la maggioranza della popolazione italiana consideri oramai socialmente ammissibile che due persone possano convivere senza essere sposate, è testimoniato da altre recenti indagini. (1)
Sulle convivenze omosessuali non esistono ancora dati ufficiali, anche se l’Istat sta predisponendone la possibilità di rilevazione nelle sue prossime indagini. I dati elaborati nel 2002 dall’Istituto Cattaneo di Bologna mostrano comunque che con l’età aumenta la quota di omosessuali che stabilizzano i loro legami sentimentali formando una relazione di coppia stabile. Si stima che i conviventi passino dal 7 per cento sotto i 25 anni a circa un gay su cinque e una lesbica su tre nella fascia d’età 35-39 anni.

Perché aumentano le coppie di fatto?

In molti paesi europei, la maggioranza delle convivenze si trasforma successivamente in matrimonio, non appena si stabilizza la condizione lavorativa e abitativa, oltre a quella affettiva. Ciò avviene spesso in concomitanza con l’arrivo di un figlio. Una parte minoritaria delle coppie di fatto rinuncia invece per ragioni varie al legame coniugale. Tra queste ci sono sia le unioni tra persone dello stesso sesso, sia coppie eterosessuali con o senza figli. (2)
La scelta di convivere in modo informale anziché sposarsi, almeno in una prima fase, è legata a vari motivi. Sono sicuramente cambiate le preferenze. Le giovani generazioni sarebbero meno propense a fare in età troppo precoce scelte cariche di impegni e responsabilità. L’unione informale costituisce una sorta di "trial marriage" che permette di uscire dalla casa dei genitori, "sperimentare" le proprie capacità di indipendenza dalla famiglia e di verificare le proprie capacita di lavoro e guadagno.
La diffusione della convivenza è però anche favorita da un aumento del senso di insicurezza, proprio delle società avanzate. In una società sempre più complessa diventa sempre meno chiaro l’intreccio tra vincoli, opportunità e implicazioni delle proprie scelte. Inoltre flessibilità e mobilità occupazionale, se da un lato favoriscono la possibilità di conquistare un’autonomia dalla famiglia di origine, dall’altro non forniscono però quella stabilità psicologica e quella continuità di reddito considerate necessarie per il matrimonio. Vari studi hanno del resto evidenziato come la convivenza spesso si configuri come una "strategia adattativa" in una fase di incertezza occupazionale, e il passaggio al matrimonio sia favorito da una stabilità occupazionale.
Va infine segnalato che nei paesi dove la proporzione delle unioni di fatto è aumentata di più, come per esempio in Svezia e Norvegia, anche la fecondità è più elevata. Questo dimostra come il supporto di un partner sia rilevante per sostenere scelte importanti in età giovanile.

Riconoscere le coppie di fatto

L’auspicio è quindi che i policy maker possano adottare su questo tema un approccio pragmatico ed equilibrato, che da un lato operi verso la possibilità di un riconoscimento giuridico delle unioni di fatto (il Pacs francese è un buon esempio), ma dall’altro agisca anche verso una riduzione delle insicurezze che frenano la progressione al matrimonio e alla decisione di aver figli (mercato del credito, delle abitazioni, mercato del lavoro, vedi Billari e Saraceno).
Va infine tenuto presente che la diffusione delle convivenze e il loro riconoscimento giuridico non hanno costituito in alcun paese, nemmeno in Svezia, una sostituzione dell’istituto del matrimonio. (3) Un atteggiamento positivo verso il matrimonio come fondamento della famiglia, o comunque come una sua certificata conferma, continua infatti a essere maggioritario in tutta Europa.

Per le note e le fonti vedi:  http://www.lavoce.info/news/view.php?id=10&cms_pk=1703&from=index

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