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Siamo tutti lavoratori
27.08.2005
Carlo Ziviello per InMovimento

Le immagini straordinarie di Sebastiao Salgado (Miniera d’oro di Serra Pelada, 1986) restituiscono a chi le guarda la netta percezione di un mondo che lavora.
Perché, per quanto ci possano essere resistenze culturali e forse fastidio ad ammetterlo, quello è lavoro.
In astratto, è lo stesso lavoro dell’operaio della Brianza, del metalmeccanico della Ruhr. E anche dell’impiegato salariato in un call center di Amsterdam.
Finché i sindacati e i movimenti socialisti e socialdemocratici sono stati attivi, in Europa e ovunque abbiano operato, le forze che portavano al miglioramento delle condizioni dei lavoratori si sono mosse in linea di massima verso un’unica direzione, sia pur a diverse velocità.
La globalizzazione e il conseguente abbattimento dei costi di trasporto , di riallocazione degli impianti e di trasmissione della conoscenza hanno messo in campo nuove forze che, se hanno enormemente migliorato le condizioni di alcuni, spesso spingono la condizione dei lavoratori lontano da un target di miglioramento portandoli invece a convergere verso la condizione di chi sta decisamente peggio. Perché è molto più conveniente livellare la condizione globale verso il basso che non verso l’alto.
Fatte ovviamente le dovute, rispettose proporzioni: la condizione del lavoratore europeo e occidentale è spesso infinitamente migliore di quella del suo omologo in Brasile, ma se l’obiettivo è l’equilibrio delle condizioni, il trend non può e non deve essere il peggioramento esclusivo di uno, soprattutto se qualcun altro sta lucrando su questo trasferimento di risorse.
E ho idea che questo non sarà il minatore brasiliano.
Mentre l’attenzione e la preoccupazione crescenti sono rivolte verso la disoccupazione e lo spettro del licenziamento, Salgado inquadra un aspetto ancor più drammatico: la condizione di chi un lavoro, spesso faticoso e umiliante, ce l’ha. E che tuttavia non garantisce un reddito sufficiente alla sopravvivenza né condizioni di lavoro tali da offrire ragionevoli presupposti di sicurezza e dignità del lavoratore.
La scena riportata dal maestro brasiliano potrebbe riferirsi agli schiavi che lavoravano alla costruzione delle piramidi o dei fori imperiali; quello che stupisce, oltre alla condizione inaudita di uomini ridotti a formiche, è la completa assenza di tecnologia. Eppure la miniera è di proprietà di una multinazionale, gestita secondo le più avanzate tecniche gestionali e operante in un sistema di libero mercato.
Cosa manca quindi?
In che senso allora il capitalismo sarebbe portatore di progresso se questi uomini sono costretti ad arrampicarsi su scale di legno di decine di metri, in condizioni di sicurezza identiche a quelle dei loro antenati che migliaia di anni fa edificavano monumenti per la gloria degli imperatori. E per un salario che è paragonabile al vitto e alloggio che veniva garantito già in epoca romana a servi e schiavi. In realtà il capitalismo non porta automaticamente progresso come spesso viene raccontato.Il progresso c’è solo se esiste competizione, indipendentemente dal sistema economico, e gran parte del progresso dell’ultimo secolo è dovuto alla contrapposizione esistente tra i due blocchi, piuttosto che a una astratta, maggior efficienza del modello capitalista rispetto a quello socialista.
Oggi la multinazionale che troverà manodopera a costo irrisorio e talvolta nullo non avrà alcun interesse a implementare macchinari, strutture tecnologiche o miglioramenti dei processi produttivi di cui il primo beneficiario sarebbe proprio il lavoratore.
Le imprese massimizzeranno i profitti comunque se questa manodopera a costo irrisorio sarà ugualmente disponibile per tutti i competitors. Ed è esattamente la situazione che si sta producendo, nel sud est asiatico come nei paesi ex comunisti.
E’ realistico pensare che di fronte a questo eldorado di manodopera alle imprese convenga sfruttare la situazione finché dura piuttosto che farsi la guerra sui prezzi e sui margini di profitto che a detta loro sembrano essere così risicati.
Forse la situazione cambierà, ma è un futuro incerto e soprattutto nessuno garantisce che un sistema che sta pericolosamente virando verso lo sfruttamento dell’uomo piuttosto che sull’innovazione e sulla competizione possa riadattarsi a competere sulla qualità e sulla ricerca se è stato così viziato in questi anni dalla disponibilità di lavoro a buon mercato. E soprattutto nessuno garantisce che un eventuale innalzamento del costo del lavoro dovuto a eventuali miglioramenti dello status dei lavoratori- o a fantomatiche rivendicazioni sindacali - se pure ci saranno (cosa che non è affatto garantita visto il gran numero di paesi antidemocratici che esiste al mondo e la conseguente disponibilità di braccia) non porti a dismissioni industriali di massa e alla sola accumulazione di rendite finanziarie anziché ad un reale miglioramento delle condizioni del lavoratore. Cosa che in piccolo sta già accadendo nel nostro paese dove il capitale sta passando di mano dall’industria alla finanza e alla rendita parassitaria dell’immobile.
Tuttavia queste sono proiezioni, e come tali inattendibili.
Il dato certo nell’immediato è il progressivo affievolimento del peso delle conquiste nel campo dei diritti e delle condizioni di lavoro e la loro trasformazione in semplice diversivo; una pausa durante la quale le imprese più spregiudicate hanno avuto il tempo di riorganizzarsi cercando a loro volta condizioni più vantaggiose.
E le hanno trovate in quei paesi che offrono, per necessità o scelta strategica, l’unica risorsa di cui dispongono che non sia già oggetto di sfruttamento intensivo da parte di qualche compagnia estrattiva: la manodopera a basso costo.
E’ ormai evidente che oggi la competizione globale porta i lavoratori e i salariati- tutti, impiegati, operai e persino chi vive grazie ai sussidi- in diretta concorrenza con i loro omologhi est- europei, asiatici e sudamericani, in una guerra tra poveri e relativamente poveri che rischia solo di esacerbare gli animi e avvantaggiare un populismo opportunista che offre facili e falsi bersagli.
E allontana l’attenzione dal problema reale.
Ci scrive ha lavorato a lungo in Nordeuropa dove le condizioni di lavoro, paghe e stato sociale- pur in netto arretramento rispetto a qualche anno fa, sono ancora migliori di quelle italiane; eppure il peggioramento delle condizioni- in termini relativi- è più rapido ed evidente proprio in quelle aree ad alto benessere ed welfare.
E’ facile e molto umano che la paura di perdere i diritti acquisiti si trasformi in egoismo, eppure quanto dei diritti a cui noi rinunciamo va effettivamente a vantaggio dei lavoratori dei paesi emergenti?

Fonte: http://www.inmovimento.it/05_agosto/3_ziviello.php

mt

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