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Il lavoro dell’immigrato «selezionato»
15.09.2005
Vogliamo anche noi una politica selettiva dell'immigrazione? Di Tito Boeri per laVoce.info

Le campagne elettorali sono, da sempre, un’occasione per disinformare gli elettori sui temi dell’immigrazione.
È una questione molto sentita, che divide l’opinione pubblica. Può essere un facile cavallo di battaglia di movimenti xenofobi e un comodo capro espiatorio per chi vuole scaricare su altri le responsabilità dei propri errori. Paradossale, ma non improbabile, che ciò avvenga anche negli otto mesi che ci separano dalle elezioni politiche.
Paradossale perché in questa legislatura l’immigrazione ha "salvato la faccia" dell’esecutivo in diverse circostanze.
Ad esempio, le poche domande di emersione presentate durante la campagna contro il sommerso di inizio legislatura provenivano quasi tutte da immigrati (per lo più i tanti temuti cinesi). E la crescita dell’occupazione, l’unico dato positivo che il Governo oggi può esibire sull’andamento della nostra economia, è in gran parte il frutto di regolarizzazioni di immigrati che già lavoravano in nero nel nostro paese: la quasi totalità dei nuovi posti registrati dalle statistiche nell’ultimo anno è attribuibile al lavoro di immigrati.

Le interdipendenze fra politiche nazionali

Ogni confronto informato sulle politiche dell’immigrazione non può che partire da una ricognizione di ciò che avviene negli altri paesi dell’Unione e nei principali paesi di origine degli immigrati. La grandezza e la composizione dei flussi migratori diretti da noi dipendono, infatti, in grande misura da come evolvono le politiche migratorie nei paesi di tradizionale destinazione degli immigrati. Basta visitare il sito dell’Home Office britannico (www.homeoffice.gov.uk) per vedere come altrove si monitora attentamente ciò che fanno gli altri paesi. E non è un caso che in occasione dell’allargamento a Est dell’Unione Europea, l’introduzione di restrizioni transitorie all’arrivo di lavoratori dai nuovi stati membri sia stata "contagiata" dalla decisione di Austria e Germania di chiudere le loro frontiere. Questo ha spinto quasi tutti gli altri paesi dell’Unione a 15, compresa l’Italia, a contravvenire al loro iniziale impegno di liberalizzare i flussi, in una vera e propria gara al rialzo delle restrizioni. Come reso esplicito dal dibattito parlamentare in Olanda (da noi queste decisioni vengono prese senza discuterne in Parlamento), si temeva che i lavoratori dell’Est, preclusa la possibilità di entrare in Germania, si sarebbero riversati nei paesi che avessero liberalizzati i flussi. Cosa puntualmente avvenuta: i flussi in provenienza dai nuovi stati membri sono stati complessivamente inferiori alle previsioni, ma sono stati più forti del previsto in Irlanda e nel Regno Unito (fino a cinque volte quelli previsti), paesi che hanno adottato una politica più liberale nei confronti dei lavoratori dei nuovi stati membri, mentre sono stati piu’ contenuti del previsto in Austria e Germania. (1)
La buona performance economica di Irlanda e Regno Unito è in parte attribuibile all’arrivo di lavoratori dall’Est, mediamente più istruiti della popolazione che li accoglie.

Cosa sta accadendo allora in Europa?

Sono tre le tendenze prevalenti negli altri paesi dell’Unione Europea sulle politiche dell’immigrazione. In primis, si nota un irrigidimento delle norme e delle procedure nei confronti degli immigrati con bassi livelli di istruzione . In secondo luogo, si cerca di attrarre lavoratori molto qualificati. Infine, si investe nell’integrazione degli immigrati, sperimentando nuove misure, come i "contrats d’acceueil et intégrations" francesi. La tendenza prevalente è, dunque, verso un ampliamento delle differenze di trattamento degli immigrati, a seconda soprattutto del loro livello di istruzione. Pragmaticamente, questo si spiega non solo con le esigenze del mercato del lavoro (mancano in Europa anche lavoratori nei segmenti di lavoro non qualificati, come la concia delle pelli o la raccolta dei pomodori, perché nessuno vuole più fare questi mestieri), ma soprattutto col fatto che i lavoratori più istruiti sono più facilmente assimilabili nel nostro tessuto sociale (in genere parlano già le lingue più diffuse, sono più adattabili a svolgere mansioni diverse, sono più informati sul paese che li accoglie, etc.) e creano meno tensioni distributive, dato che competono con lavoratori con redditi medio-alti nei paesi che ricevono gli immigrati. Le restrizioni all’immigrazione servono, dopotutto, per imporre una certa gradualità nei flussi (non per impedirli), in modo tale da evitare tensioni nel processo di integrazione. Nel caso dei lavoratori più istruiti, questa gradualità non è così giustificata. Serve a colmare il gap nell’attrarre lavoro qualificato rispetto a paesi che hanno tratto enormi vantaggi sul piano della crescita economica dall’immigrazione. In Canada e Australia, paesi che hanno adottato politiche selettive dell’immigrazione, un quarto degli immigrati a livelli di istruzione elevati, contro solo il 5% nei paesi dell’Unione Europea.
L’Italia è in controtendenza non solo rispetto ai paesi Ocse, ma anche nell’ambito dell’Unione Europea. Come sottolineato da Adriana Topo da noi le quote vengono allocate solo in base alla data di presentazione delle domande, non tenendo minimamente in conto il livello di istruzione e la precedente esperienza lavorativa degli immigrati. Bene che in campagna elettorale di questo si discuta. Ecco un quesito che bisognerebbe porre ai leader delle due coalizioni: pensate di differenziare anche da noi le politiche dell’immigrazione a seconda del livello di istruzione degli immigrati?

Vogliamo integrarli?

L’Italia non fa nulla neanche sulla terza strada imboccata in Europa, quella dell’integrazione degli immigrati.
Integrare vuol dire innanzitutto concepire un percorso al termine del quale è possibile acquisire la cittadinanza e avere diritto di voto. Il nostro regime di acquisizione di diritti sulla base della cittadinanza dei genitori (jus sanguinis) ci porta al paradosso di far votare sull’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori persone che sono da due, forse anche tre, generazioni in America Latina e non figli di immigrati che da anni lavorano e pagano le tasse nel nostro paese.
Ma integrazione non vuol dire solo questo. Vuol dire anche certezza e semplificazione del quadro normativo per allontanare gli immigrati e chi offre loro lavoro dall’irregolarità e dal lavoro nero. Significa avere restrizioni realistiche dei flussi e non quote che coprono il 10 per cento della domanda delle imprese e fanno arrivare lavoratori clandestini che si regolarizzeranno alla prossima sanatoria. Significa anche non imporre forche caudine a chi evita di rimanere disoccupato o aspira a migliorare la propria posizione cambiando datore di lavoro.
Come ci spiega Paola Scevi, le procedure da seguire dall’immigrato e dal suo datore di lavoro in caso di cambio di impiego sono molto onerose, un vero e proprio incoraggiamento attivo al lavoro nero. Bisogna allora proporsi di avere meno procedure ad alto utilizzo di risorse amministrative e più incentivi all’integrazione. Un buon test di quanto siano attuabili le nostre norme consiste nel guardare al lasso di tempo intercorso tra la loro introduzione e la pubblicazione dei regolamenti attuativi. Ci sono voluti quattro anni per avere il regolamento della Bossi-Fini e il tanto decantato Sportello unico per l’immigrazione non è ancora del tutto operativo.

(1) Questo fatto è documentato nel saggio Boeri and Bruecker, "Why Are Europeans Getting so Tough on Migrants?", che uscirà in ottobre su Economic Policy).

Fonte (con link di approfondimento): http://www.lavoce.info/news/view.php?id=9&cms_pk=1733&from=index

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