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Suprema Corte (di Paola Carini)
27.09.2005
Suprema Corte
“Dal momento che gli abitanti originari dell’emisfero occidentale non chiamavano sé stessi con un nome unico né si consideravano una collettività, l’idea e l’immagine dell’indiano deve essere una concezione dei bianchi. I nativo-americani erano e sono reali; ma l’indiano fu un’invenzione dei bianchi e rimane ancora largamente un’immagine dei bianchi, se non uno stereotipo”.
Così nel notissimo saggio The White Man’s Indian, Robert Berkhofer enuclea un concetto con cui chiunque vuole avere a che fare con le popolazioni autoctone del continente americano – dall’accademico all’appassionato cultore – avrebbe il dovere di misurarsi costantemente. È un giudizio che demolisce impietosamente tutte le sfaccettature di una mistificazione che ha permeato e continua a permeare la percezione dei nativo-americani. Il cerchio, la ruota della medicina, le direzioni e i loro accordi cromatici, l’idea che quelle culture siano definitivamente scomparse, i brandelli di discorsi – celeberrimo è quello di Capo Seathl – sono frammenti di cui tutto il mondo si è appropriato insieme a concetti quali quello di madre terra, così in voga in questi tempi new age. In realtà, la traslazione da una cultura ad un’altra di pratiche, credenze o simboli presenta sempre il rischio di trasformarli in vuote imitazioni, e quando il prestito diventa appropriazione la possibilità della mercificazione è concreta, mentre il danno alla proprietà intellettuale e culturale di un popolo è indubbiamente ingente.
In America pregiudizi e cliché sui nativo-americani fiorirono molto presto: sin dagli albori della colonizzazione del continente “l’indiano”, cioè l’abitante delle fantomatiche “Indie” raggiunte da Colombo, fu alternativamente il selvaggio da annientare o da assimilare con modi ingegnosi in tempi diversi o da rinchiudere nel gigantesco ghetto del Territorio Indiano, in modo da trasformarlo nell’ultimo, triste rappresentante di una civiltà morente. Eppure, sin dagli albori, la nazione democratica degli Stati Uniti ebbe l’onere di adempiere agli obblighi che essa stessa aveva sottoscritto attraverso i trattati con le tribù in cambio del possesso di quasi tutta la terra dall’Atlantico al Pacifico, e questo è un laccio di cui non è riuscita, almeno da un punto di vista giuridico, a liberarsi.
Nel 1987 il Senato americano ha riconosciuto il grosso debito dei Padri Fondatori verso la confederazione haudenosaunee per quanto riguarda la stesura della Costituzione americana (come spiegato nell’articolo intitolato “La Legge della Pace”), ma nella Costituzione non c’è alcuna indicazione su come regolamentare i rapporti tra governo federale e nazioni indiane. È nelle sentenze della Corte Suprema e negli atti del Congresso che viene delineata la relazione tra i due. Dal 1789 le 16 Corti Supreme, il ramo più alto del potere giudiziario americano, che si sono succedute fino ad oggi ne hanno via via codificato il legame. Il risultato è un impianto di legge basato sul presupposto che ci sia un colonizzatore ed un colonizzato e che con la conquista – la colonizzazione, appunto – quest’ultimo abbia perduto la sovranità originaria pur conservandola in ambiti ristretti e individuati. Questo corpus di leggi, raggruppate sotto il nome di Federal Indian Law, stabilisce che l’atteggiamento del governo federale verso le nazioni nativo-americane deve essere, in sintesi, quello di un protettore verso il suo protetto, ossia che è suo dovere tutelarne la salute, la sopravvivenza, la terra tribale, e garantire l’istruzione e la conservazione della cultura e della lingua autoctona anche a discapito degli stati in cui le nazioni tribali vivono. Gli stati americani non hanno alcuna giurisdizione nelle riserve che ospitano poiché esse sono – a giudizio della Corte Suprema presieduta dal Giudice Marshall (1832) – nazioni domestiche dipendenti, ovvero dipendenti dal governo federale. Col tempo e con successive sentenze, al Congresso verrà dato ampio potere di intervento e di legiferazione in materie indiane, nel rispetto di quei trattati a seguito dei quali la nazione americana venne creata.
Nonostante lo spirito colonialistico, quando non paternalistico, che il Congresso attraverso la legislazione e la Corte Suprema attraverso la definizione giuridica hanno infuso in queste leggi, esse rimangono gli unici baluardi della sopravvivenza e dell’indipendenza, seppur relativa, tribale.
Fino ad oggi, almeno.
Recentemente, agli uragani che hanno rivelato al mondo e all’America incredula l’immaginabile fragilità di una nazione che spende milioni di dollari in armi mentre 40 milioni di suoi concittadini vivono sotto la soglia della povertà, si è aggiunto un altro fattore di potenziale destabilizzazione: la nomina del giudice che presiederà la Corte Suprema. Nominati dal presidente in carica, i nove giudici della Corte mantengono la loro carica a vita “vegliando”, per così dire, sulla costituzionalità delle decisioni delle corti inferiori e stabilendo linee guida nelle materie più diverse, dal diritto all’aborto alle faccende “indiane”. Una commissione mista del Senato deve poi decidere se nominare o meno il candidato proposto dal presidente dopo aver avuto la possibilità di appurarne l’opportunità a seguito di un’udienza. Per il ruolo chiave che ogni giudice della Corte gioca, la nomina di un giudice piuttosto di un altro ha, ovviamente, esiti ben diversi per la nazione.
Alla sostituzione per dimissioni del giudice Sandra Day O’Connor si è sovrapposta la morte, agli inizi di settembre, del giudice che presiedeva la Corte, William H. Rehnquist. Il candidato per sostituire la O’Connor è diventato improvvisamente candidato alla presidenza della Corte. Il Presidente Bush ha nominato l’avvocato John Roberts, già Segretario della Corte Suprema sotto la presidenza Rehnquist, già rappresentante del governo federale durante la presidenza Reagan e la prima presidenza Bush come possibile successore di Rehnquist, ed è qui che numerose voci allarmate hanno cominciato a prendere forza da più parti. Dei 100 membri della Commissione mista del Senato che dovranno decidere della sorte di Roberts, 55 sono repubblicani e quindi orientati a confermare la nomina fatta dal Presidente Bush, mentre i restanti democratici sono divisi tra la scelta di approvare Roberts e dare battaglia sulla nomina successiva e votare no in prima battuta. La paura dei democratici rimane quella, come riporta il New York Times del 26 settembre, di una deriva conservatrice che minerebbe posizioni acquisite su temi quali diritti civili, ambiente e minoranze, per molti, molti anni a venire.
I fermenti riguardo Roberts in “Indian country”, cioè tra le comunità nativo-americane, oscillano tra la preoccupazione e l’aperta opposizione. Uno dei principali giornali nativo-americani, il cui editore di riferimento è la nazione oneida che ha recentemente perso una causa contro la città di Sherrill, difesa da Roberts, prospetta un futuro ben poco roseo se egli diventerà presidente della Corte Suprema. Pur riconoscendone le competenze in “Indian law”, il giornale attraverso i suoi editorialisti scava nel recente passato di Roberts e rende pubblico il modo in cui, davanti alla Corte Suprema, ha reso credibile e legittima la posizione dello stato dell’Alaska contro il villaggio dei gwich’in di Venetie nel 1997, influenzando pesantemente anche il linguaggio del verdetto finale degli stessi giudici. Argomentando che le terre riconquistate dai nativo americani in Alaska grazie all’Alaska Native Claims Settlement Act non sono territori assimilabili al resto delle terre tribali, Roberts è riuscito a convincere la Corte Suprema, incredibilmente a digiuno di legislazione nativo-americana, che i gwich’in non hanno diritto di imporre tasse, mentre solo lo stato dell’Alaska lo può fare. Fin qui si tratterebbe solamente della facondia di un avvocato sapiente e scaltro ma, come riportato dal giornale, leggendo le motivazioni di Roberts si incappa in un clamoroso errore di trascrizione di una delle fonti citate, troppo evidente agli occhi di chi pratica la legge per essere non voluto. Chi vi scrive ha verificato i documenti e trovato l’incongruenza: citando una sentenza della Corte Suprema presieduta da Miller nel 1886 (U.S. v. Kagama), Roberts dichiara che “gli indiani delle riserve erano quasi completamente dipendenti dal governo federale per il sostentamento, il vestiario, la protezione ed erano spesso nemici MORTALI degli stati”, mentre nella sentenza originale Miller scrive che “[le tribù indiane] sono comunità che dipendono dagli Stati Uniti principalmente per il sostentamento quotidiano e per i diritti politici. Esse non devono alcuna fedeltà agli stati, e da essi non ricevono alcuna protezione. A causa dell’ostilità locale, i cittadini degli stati in cui esse si trovano sono spesso I LORO PIU’ MORTALI NEMICI”.
Il cambio di prospettiva è notevole e, in malafede o meno, l’avvocato dello stato dell’Alaska Roberts è riuscito ad assottigliare notevolmente la già scarsa sovranità tribale scaravoltando il principio basilare su cui si regge il rapporto tra governo federale e nazioni nativo-americane, quello tra protettore e protetto, suggerendo l’idea dell’indiano sanguinario che attaccava i forti, prendeva lo scalpo, sequestrava le donne bianche di tanta filmografia. Un capolavoro di retorica, insomma.
Così, negli Stati Uniti di oggi, tra uragani devastanti e insondabili strategie politiche democratiche, lo stereotipo dell’indiano di Berkhofer si ripresenta sia nelle stanze della suprema corte che nella vita di ogni giorno. Perché nella vita di ogni giorno, denuncia la U.S. Commission on Civil Rights, la Commissione americana per i diritti civili, i nativo-americani si ammalano di diabete più di ogni altra popolazione al mondo, muoiono di tubercolosi in percentuali allarmanti, soffrono di disturbi psichici – depressione e traumi intergenerazionali, abuso di sostanze stupefacenti e alcoliche – in altissimi numeri e la percentuali di suicidi tra i BAMBINI tra i cinque e i dieci anni è tre volte più grande della media nazionale, e la seconda causa di morte tra i ragazzi tra i 15 e i 24 anni.
E la tragedia non è in questi numeri.
La tragedia vera è la latitanza del governo federale nel provvedere ad un’assistenza sanitaria degna, gratuita, capillare. È nella disparità di trattamento al pronto soccorso o all’ospedale, per cui nella scala delle priorità di intervento i nativo-americani sono sempre, ovunque, immancabilmente, gli ultimi, dopo gli afro-americani, dopo gli ispanici, dopo gli asiatici, vittime del razzismo ancora prima della malattia.
La tragedia vera sono le Promesse Non Mantenute, come la Commissione intitola il proprio studio-denuncia sul sistema sanitario nativo-americano, del governo federale in quasi tre secoli di storia.
Il rischio di un’involuzione giuridica esaspera tutto questo.
E la tragedia vera è che lo fa con un banale, semplicissimo gioco di parole.
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