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Perché non piace la globalizzazione
19.10.2005
Anna Maria Mayda per laVoce.info

Gli economisti, si sa, difficilmente vanno d’accordo. Le differenze di opinione su molte questioni di interesse pubblico sono solitamente marcate e animano accesi dibattiti sui principali temi economici, dalla riforma delle pensioni alla gestione del debito pubblico. Su una questione, invece, sembrano essere tutti d’accordo: il commercio internazionale. Da un punto di vista tecnico, infatti, vi è in generale consenso sull'obiettivo di ridurre le tariffe commerciali, ovvero le imposte che gravano sulle importazioni, rendendole più costose. Tale convergenza si basa sui risultati dell’analisi teorica la quale dimostra che il commercio internazionale genera benefici netti totali, i cosiddetti "gains from trade."

Globalizzazione? No, grazie

Eppure, indifferente alla concordia degli economisti, l'opinione pubblica sembra pensarla diversamente: recenti indagini campionarie mostrano infatti che la maggior parte degli intervistati, circa il 60 per cento, si oppone a un aumento del grado di apertura del proprio paese. Esistono, come è ovvio, interessanti differenze nei risultati dei sondaggi tra un paese e l’altro ma, in generale, indipendentemente dalla nazionalità, l’opinione pubblica si rivela in maggioranza contraria alla globalizzazione, per quanto riguarda il commercio internazionale.

Come spiegare la divergenza tra l'opinione pubblica e il parere degli economisti? Si tratta soltanto di una questione di ignoranza dei meccanismi economici di base da parte dei non tecnici? In altri termini, ci troviamo di fronte all’ennesima riprova della scarsa capacità degli economisti di informare il pubblico? No, suggeriscono una serie di analisi econometriche recenti. In realtà i non addetti ai lavori mostrano, implicitamente, una comprensione sofisticata del funzionamento dei mercati, in linea con i risultati teorici di uno dei modelli principali di commercio internazionale, la teoria di Heckscher e Ohlin.

Effetti redistributivi della liberalizzazione commerciale

L'integrazione commerciale tra paesi produce benefici netti a livello aggregato, ma genera anche effetti redistributivi: i guadagni di una parte dell'economia si accompagnano alle perdite di un’altra. In ogni paese, il gruppo che trae vantaggio dall’apertura commerciale è quello che possiede il fattore di produzione "abbondante" - in termini relativi rispetto al resto del mondo - a discapito del gruppo caratterizzato dal fattore di produzione "scarso", che subisce invece una riduzione di reddito reale. (1)
Utilizzando dati per gli Stati Uniti – un’economia ricca di capitale umano – è stata stimata una correlazione positiva tra il grado di istruzione di un intervistato e l’opposizione a politiche protezionistiche: individui con un livello di educazione più elevato, che costituiscono il gruppo con il fattore abbondante, si mostrano più favorevoli all’abbattimento delle barriere commerciali. (2)
È evidente, tuttavia, che l’analisi basata su un unico paese caratterizzato da abbondanza di capitale umano difficilmente riesce a differenziare, da un punto di vista statistico, l’impatto economico da quello, invece, non-economico. Dopotutto, un elevato grado di istruzione si accompagna solitamente a una apertura culturale verso il resto del mondo che non può che influenzare l’opinione sulla globalizzazione.
Un recente lavoro estende l’analisi statunitense utilizzando dati di diversi paesi e ne conferma i risultati. (3) La probabilità che un individuo abbia un’opinione favorevole alla liberalizzazione commerciale aumenta con il suo livello di educazione, ma solamente in paesi ricchi di capitale umano. Al contrario, in economie caratterizzate da un’offerta abbondante di manodopera non specializzata (ad esempio, le Filippine) si ottiene il risultato opposto: più elevato è il livello di educazione di un intervistato, più bassa è la probabilità che sia favorevole a un intensificarsi degli scambi commerciali. Quindi, le diverse opinioni sul tema della liberalizzazione dei mercati, espressi da individui con il medesimo livello di istruzione, sembrano essere spiegate dalle differenze di abbondanza relativa di capitale umano tra paesi.
In conclusione l’integrazione economica, e in particolare la liberalizzazione commerciale, produce effetti redistributivi all’interno di ogni paese e, quindi, tensioni sociali. Dal momento che i guadagni di coloro che ne sono avvantaggiati risultano superiori alle perdite del resto dell’economia, in teoria è possibile attuare una politica di redistribuzione che migliori la posizione economica di tutti. Due risultati derivano da questo tipo di analisi. Innanzitutto, in generale il commercio internazionale produce vantaggi aggregati per ogni paese coinvolto: ne consegue che il protezionismo non rappresenta una scelta efficiente. Infine, sono necessarie le politiche di redistribuzione del reddito a livello nazionale - che raramente vengono intraprese -, se si vuole evitare che l’integrazione economica dia luogo a tensioni sociali.
Il commercio internazionale rappresenta una forza non solo economica, che esercita pressione su istituzioni e norme sociali, perché ne favorisce l’armonizzazione a livello mondiale. Ma riducendo la distanza culturale da un paese all’altro, può comportare per alcuni un senso di perdita di identità nazionale. Lo studio citato mostra infatti come l’opinione pubblica sulla liberalizzazione commerciale sia in realtà frutto dell’interazione di diverse determinanti, sia economiche che non-economiche. L’impatto culturale e sociale rappresenta, quindi, un’altra motivazione da non sottovalutare dell’avversione dell’opinione pubblica all’apertura commerciale e una chiave di lettura della divergenza con il parere degli economisti.

Le opinioni sull’immigrazione

L'importanza degli effetti distributivi e dell'impatto non-economico della globalizzazione è evidente per quanto riguarda un altro aspetto: l'immigrazione.
Gli scambi commerciali, i flussi di capitale e l'immigrazione rappresentano infatti dimensioni alternative dello stesso processo di integrazione dei mercati internazionali: da un punto di vista puramente economico, tali fenomeni sono strettamente collegati tra loro. Lo scambio di fattori della produzione può avvenire in maniera diretta, tramite i flussi migratori e i movimenti di capitale, o indiretta, tramite il commercio internazionale, in quanto beni e servizi scambiati incorporano l’utilizzo di tali fattori.
Non sorprende dunque che le preferenze di un individuo sul commercio e l’immigrazione siano positivamente correlate. Ancora una volta, le risposte degli individui intervistati – siano essi istruiti o non - sono coerenti con le previsioni economiche, in particolare con il tipo di immigrazione (in termini di livelli di istruzione) che caratterizza il paese di destinazione. (4)
Questi effetti, invece, scompaiono se si considerano solo individui al di fuori della forza lavoro - dove quest’ultima include sia gli occupati che i disoccupati - il che esclude un’interpretazione solo non economica di tali risultati.
Esistono però differenze sostanziali tra le risposte degli individui alle domande sul commercio e a quelle sull’immigrazione - collegate, ad esempio, al settore di impiego dell’individuo e ad altre variabili non economiche. Cosicché le percentuali dell’opinione pubblica a favore dell’immigrazione sono ancor più basse di quelle a favore degli scambi commerciali.
Sono statistiche interessanti perché permettono di spiegare l’asimmetria, da un punto di vista politico, tra questi due strumenti alternativi di integrazione È innegabile, infatti, che negli ultimi decenni, il desiderio di apertura commerciale dei principali governi sia andato di pari passo con la volontà di limitare l’immigrazione internazionale.

(1) Questo risultato teorico è dovuto a Stolper e Samuelson.

(2) Scheve e Slaughter (1998)

(3) Mayda e Rodrik (2005)

(4) Mayda (2005)

Fonte: http://www.lavoce.info/news/view.php?id=9&cms_pk=1804&from=index

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