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America Immaginata (di Paola Carini)
30.10.2005
America Immaginata (di Paola Carini) “C’è una sostanziale questione irrisolta” afferma il Dipartimento di Giustizia americano, su quali siano esattamente i rapporti tra il Congresso e gli hawaiani, intesi come i discendenti delle popolazioni che abitavano l’arcipelago delle Hawai’i prima che vi arrivasse Cook. Nessun problema, risponde il senatore democratico Daniel Akaka, eletto proprio nelle Hawai’ì e promotore di un disegno di legge, l’”Akaka Bill” che intende definire una volta per tutte la questione. Gli Stati Uniti hanno stipulato dei trattati con gli hawaiani così come hanno fatto con i nativo-americani; gli hawaiani sono la popolazione autoctona di uno degli stati che compongono la grande nazione americana, come i diné dell’Arizona o gli anishinaabeg del Minnesota, quindi la questione hawaiana è assimilabile a quella nativo-americana.

Allora perché tutte le associazioni e i gruppi che riuniscono a vario titolo gli hawaiani si sono scagliate contro Akaka e la sua legge?

Esiste una differenza macroscopica tra le vicende dei nativo-americani e quelle degli hawaiani: i primi, sin dal XVI secolo, vennero conquistati e decimati in nome dell’europeo diritto di conquista; tre secoli dopo, con alle spalle l’era Illuministica e la Rivoluzione Francese, dopo Thom Paine e Thomas Jefferson, dopo l’affrancamento delle colonie americane dal Regno Unito e la fioritura di costituzioni che ne seguì, dopo che una di queste colonie, la Virginia, vi inserì il principio che “tutti gli uomini sono per natura ugualmente liberi e indipendenti e possiedono certi diritti innati”, dopo la Dichiarazione di Indipendenza, dopo Madison, Mason e Jay e la Dichiarazione dei Diritti, come si poteva assoggettare un popolo senza contraddire clamorosamente principi e diritti dell’uomo più volte proclamati, sottoscritti e sbandierati?

Quel che comunemente si sa, oggi, delle Hawai’i, non è la verità storica di questo arcipelago e dei suoi abitanti. Prendendo a prestito la definizione dello storico Comer Vann Woodward le Hawai’i sono, indubbiamente, un’ “America immaginata”. E lo sono per più di un motivo.

Sin dal loro arrivo, europei e americani costruirono un canovaccio di storie favoleggiando delle isole e degli isolani (soprattutto delle isolane) che finì con l’ammantare la realtà di una coltre di finzione. Le Hawai’i divennero così una “geografia immaginata” per saziare la curiosità (maschile) europea, fatta di ragazze seminude che accolgono gli stranieri con corone di fiori in una terra che pare un paradiso, una natura intatta e ancora selvaggia con montagne dalle pareti a picco sul mare e vulcani ancora attivi. Oggi, ai fini di una efficace promozione turistica, l’immagine delle Hawai’i è rifinita e cesellata ad arte sulla falsariga di quei racconti – dalle invitanti fotografie di ragazze che eseguono la hula ai “lei” elargiti profusamente ai turisti – con l’opportunistica aggiunta del memoriale di Pearl Harbor. Nulla traspare dell’insostenibile militarizzazione dell’arcipelago, che ospita più di cento installazioni o basi militari e 150.000 addetti, o dei danni provocati dai più di 18 milioni di litri di materiale di scarto radioattivo scaricato dai sottomarini tra il 1963 e il 1974, per ammissione stessa della Marina Militare statunitense, per non parlare delle vittime accidentali delle detonazioni in mare, o dei pesticidi, dei solventi e dell’amianto che fonti giornalistiche hanno verificato essere scaricati senza alcun controllo dalla Marina col risultato di una probabile contaminazione della falda acquifera che alimenta Honolulu.

Ma le Hawai’i non sono solamente “immaginate” nel senso di “mitizzate”, purgate dei dettagli improponibili per motivi più o meno interessati; esse non sono nemmeno, paradossalmente, “America”. E non a causa della distanza che le separa dagli altri 49 stati americani.

Le isole Hawai’i furono progressivamente invase da uomini d’affari americani (e da un esercito) che introdussero il concetto di proprietà privata per acquisire la terra e farne delle piantagioni di canna da zucchero, il tutto mentre si garantiva il rispetto formale della sovranità locale. Nel 1848, l’anno della corsa all’oro in California, l’influenza economica americana nelle Hawai’i divenne tale da mandare in frantumi la struttura sociale e politica preesistente. I kanaka maoli, gli abitanti autoctoni delle isole, già duramente provati dall’arrivo dei missionari che avevano sconvolto tradizioni, costumi e spiritualità millenarie, si ritrovarono ad aver perduto gran parte della loro magnifica terra e ridotti numericamente del 90% nel giro di circa un secolo.

Già. Perché nel 1893 l’arcipelago delle Hawai’i era governato da una regina, Lili’uokalani, ultima di una stirpe di regnanti che avevano unificato le isole poco tempo dopo l’arrivo di Cook, nel 1778. Nonostante le pesanti ingerenze straniere nella vita politica ed economica, nel corso dell’Ottocento le Hawai’i vennero riconosciute come indipendenti dalle maggiori nazioni dell’epoca: Francia e Regno Unito. Gli Stati Uniti si spinsero oltre, e con il “Trattato di Amicizia, Commercio e Navigazione”, nel 1849 promisero di garantire al Regno delle Hawai’i amicizia e pace perpetue, salvo attuare un colpo di stato che depose la regina pochi decenni dopo.

Nel 1893 i marines americani furono il braccio armato di un’insurrezione orchestrata dai proprietari terrieri bianchi i quali, non paghi della loro arrogante influenza sulla vita politica ed economica delle isole, ritennero più conveniente conquistare una volta per tutte l’arcipelago. La regina non oppose resistenza, consapevole del bagno di sangue che ne sarebbe seguito e, nonostante il Presidente degli Stati Uniti Cleveland avesse preteso dal Congresso la restaurazione della Regina, nel 1894 venne proclamata la nascita della Repubblica delle Hawai’i.

Gli affari, si sa, sono affari.

Il trattato del 1849, mai scisso, ha ancora validità giuridica, e questa è la vera questione irrisolta di cui parla il Dipartimento di Giustizia. È la spina nel fianco degli Stati Uniti contemporanei che, pur non riconoscendo la Corte di Giustizia Internazionale e paralizzando di fatto le Nazioni Unite con il loro ingente debito e i loro veti, sanno che l’articolo 73 della Carta dell’ONU impone loro di ripristinare l’autogoverno nelle Hawai’i. Con la presidenza Clinton, nel 1993 il Congresso aveva ratificato “l’Apology Bill”, le scuse formali per il colpo di stato condotto nelle Hawai’i con la compiacenza degli Stati Uniti, ma ad esso non seguì nulla di concreto.

Nel 1998, nel centesimo anniversario dell’annessione delle Hawai’i agli Stati Uniti, due esperti di diritto, Francis Anthony Boyle e Keanu Sai, citarono gli Stati Uniti presso la Corte Suprema, argomentando che tutti i trattati stipulati dagli Stati Uniti con le Hawai’i prima del 1893 erano di fatto ancora validi. Secondo il loro parere la Corte Suprema avrebbe dovuto intimare al governo federale l’immediato ripristino del regno delle Hawai’i.

La cosa si risolse subito. Non venne permesso loro nemmeno di depositare la causa, dopo che i giudici decisero che non poteva essere accettata sulla base del fatto che sovranità non riconosciute (dal Dipartimento di Stato) non possono avere accesso alle corti statunitensi. Legalmente, secondo i due legali, proprio perché in quei trattati veniva invece riconosciuta la sovranità hawaiana, la causa doveva essere dibattuta presso la Corte Suprema e la presenza degli Stati Uniti era, ed è, un’occupazione belligerante di territorio straniero.

L’Akaka Bill, in questa complicata storia, non renderebbe giustizia ai kanaka maoli ma renderebbe giuridicamente accettabile la presenza americana. Concedendo con una mano il diritto all’autodeterminazione, il disegno di legge toglierebbe con l’altra la possibilità di attuarlo. Le Hawai’i avrebbero “un’entità di governo” che, volutamente indicata in maniera nebulosa, non potrebbe avere funzioni di governo vere.

Le Hawai’i di oggi, chiosa Boyle, sono potenzialmente uno stato ma non hanno la possibilità di un governo proprio. Ma è difficile quando il 95% della terra (coltivabile) è in mano a 82 proprietari terrieri. Quando la disoccupazione e la povertà uccidono massicciamente o mandano in galera. Quando le multinazionali Del Monte e Dole controllano isole intere, ed un’unica famiglia possiede tutta l’isola di Ni’ihau.

Spogliato del possesso della propria terra, un popolo può difficilmente essere sovrano. Succede ai boscimani, succede ai palestinesi e succede anche ai kanaka maoli, solo che in pochi lo sanno. In pochi sanno ciò che le Hawai’i sono effettivamente.

Di certo sono immaginate.

E di certo non sono America.

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