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Le strade divergenti di Europa e Stati Uniti
20.06.2003
Arriverà presto la ripresa economica, come promettono i leader del G8?
Negli Stati Uniti come in Europa, gli astri sembrano favorevoli a molte variabili economiche.

Le buone notizie

Il prezzo del petrolio sta scendendo dai picchi raggiunti con la guerra in Iraq, e sotto scenari plausibili, può indirizzarsi verso qualcosa di ben più consistente di un calo. Gli investitori di tutto il mondo si stanno riprendendo dai nervosismi Brasile-Enron-guerra in Iraq e il premio di rischio sta scendendo, determinando il rialzo dei corsi azionari e minori rendimenti dei titoli obbligazionari a lunga scadenza. Il lascito di accumulazione di capitale in eccesso avvenuta nel corso dei folli anni Novanta è per lo più eliminato. I tassi di investimento sono rimasti bassi per tre anni di seguito e soltanto alcuni settori soffrono ancora di un eccesso di accumulazione di capitale. Le imprese sono ora pronte a investire di nuovo.

Sono tutte buone notizie, ma le similarità tra Europa e Stati Uniti finiscono qui.

Un confronto Usa-Europa

Negli Stati Uniti, politica fiscale e monetaria lavorano a tutto gas, in Europa sono imbavagliate.

Negli Stati Uniti, Alan Greenspan ha fatto il suo lavoro nel 2001 e 2002, tagliando i tassi con decisione. E quando la politica monetaria non ha potuto fare più nulla, il testimone è passato all’amministrazione Bush, che lo ha preso con entusiasmo: il bilancio federale è passato da un surplus dell’1,4 per cento del prodotto interno lordo nel 2000 a un deficit stimato per il 2003 al 4,6 per cento, con un’oscillazione del 6 per cento – il 5 per cento della quale è dovuto ai mutamenti di politica economica piuttosto che alla debolezza dell’economia. Questo può essere fiscalmente irresponsabile (e con i tagli alle tasse previsti per il futuro, lo è di sicuro), ma nel breve periodo rappresenta certamente un enorme stimolo alla domanda.

In Europa, la Bce è stata molto più cauta. È vero che doveva stabilire la sua credibilità, ma la conseguenza è stata una minore e più lenta riduzione dei tassi di interesse, nonostante l’ultimo taglio. La politica fiscale è vincolata dal Patto di stabilità e crescita. Il bilancio dell’area euro è passato da un surplus dello 0,1 per cento nel 2000 a un deficit previsto al 2,4 per cento nel 2003, quasi del tutto dovuto alla debolezza dell’economia e non a modifiche nella politica fiscale. I governi fanno ora aggiustamenti al margine, barano un po’ e si prendono le reprimende di Bruxelles. Ma, anche nella migliore delle ipotesi, probabilmente non avremo quella massiccia espansione fiscale nel breve di cui l’Europa ha necessità. (Il segreto del successo qui è aumentare i deficit nel breve periodo e nello stesso tempo migliorare le prospettive a lungo termine attraverso serie riforme nei sistemi pensionistici. I governi stanno cercando di realizzare il secondo obiettivo, dovrebbero sentirsi più liberi di perseguire anche il primo).

Un'amara ironia nei tassi di cambio

Intanto, il mondo sta sperimentando un importante riallineamento dei tassi di cambio: il dollaro si sta deprezzando, l’euro apprezzando.

C’è una profonda e amara ironia in tutto ciò. L’attuale deprezzamento del dollaro è il prezzo che gli Stati Uniti devono pagare per i loro peccati del passato, per il grande deficit della bilancia di parte corrente, che gli investitori esteri non vogliono più finanziare, almeno non a un ritmo del 4 per cento o più del Pil americano. L’ironia sta nel fatto che questo aggiustamento del dollaro è indiscutibilmente un bene per gli Stati Uniti e altrettanto indiscutibilmente un male per l’Europa.

Per gli Stati Uniti significa uno stimolo alle esportazioni e un ulteriore incremento della domanda, quindi un nuovo impulso per la ripresa. Significa anche un po’ di inflazione in più, ma al giorno d’oggi questo è un bene, non un male.

Per l’Europa significa una minore competitività e un’ulteriore contrazione della domanda. Gli effetti sono tutt’altro che irrilevanti. Le stime migliori indicano che un apprezzamento del 10 per cento dell’euro induce un calo della domanda e del prodotto dello 0,6 per cento del Pil di Eurolandia. Finora, l’apprezzamento è stato di circa il 30 per cento rispetto ai minimi di due anni fa e ci sono buone ragioni per pensare che proseguirà: l’euro è l’unica moneta verso la quale il dollaro può deprezzarsi. (Una rivalutazione dello yen è l’ultima cosa di cui ha bisogno il Giappone). E servirà ben più di quello che abbiamo visto finora, perché il deficit della bilancia corrente americana torni a proporzioni ragionevoli.

Il pericolo deflazione

Con la contrazione della domanda e l’apprezzamento dell’euro, arriva la deflazione. L’Europa è già sull’orlo della deflazione e l’apprezzamento dell’euro potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso. E, come ci dimostra la ormai decennale crisi giapponese, è sicuro che l’Europa non vuole arrivare a questo punto.

In definitiva, i G8 hanno ragione a metà: tra caduta dei prezzi del petrolio, politiche fiscali e monetarie aggressive e deprezzamento del dollaro, è difficile vedere che cosa potrebbe ostacolare una forte ripresa negli Stati Uniti. Ma questo non si applica all’Europa, dove la cautela monetaria, i limiti auto-imposti alla politica fiscale e l’apprezzamento dell’euro portano tutti a chiari pericoli, deflazione e una prolungata crisi. Il rallentamento non è una strada obbligata: molti fondamentali sono giusti tanto che un semplice cambio d’umore potrebbe spingere l’Europa alla ripresa. Ma questo è il tempo di robusti piani per affrontare la contingenza, di politiche macroeconomiche ambiziose. Non mi sembra che siano in arrivo.

di Olivier Blanchard, direttore del Dipartimento di economia del MIT (USA).

da www.lavoce.info
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