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Il ponte aleutino (di Paola Carini)
28.12.2005
Con il termine “preistoria” si indica il periodo in cui il mondo vide l’origine e lo sviluppo delle civiltà. Avendo esse lasciato dietro di sé solamente labili tracce ed essendo caratterizzate dall’assenza di testimonianze scritte (ad esclusione delle figure a volte estremamente sofisticate disegnate sulle pareti delle caverne) la ricostruzione della loro esistenza è sostanzialmente il frutto della combinazione tra ricerche con strumentazioni sempre più sofisticate e speculazioni, deduzioni, intuizioni. Tutt’altro che una scienza esatta, la compagine di discipline che si dedica allo studio della preistoria è un gioco di equilibrio tra dati apparentemente inopinabili, come la datazione al carbonio 14, e ipotesi costruite su quei dati. Non deve quindi stupire che ricercatori diversi giungano a conclusioni diverse, a volte diametralmente opposte, riguardo lo stesso argomento. Marija Gimbutas, docente di archeologia europea a UCLA (Università di California, campus di Los Angeles) per molti anni, attirò su di sé aspre critiche da parte di esimi colleghi a causa dei risultati delle sue ricerche. Esaminando le pose e i simboli di centinaia di statuette dell’era paleolitica e neolitica ritrovate nell’Europa sudorientale, Gimbutas arrivò a questa conclusione: tra il 7000 a.C. e il 3500 a.C. nell’area compresa tra il Mar Egeo e l’Adriatico – inclusa buona parte dell’Italia centro-meridionale – la penisola greca e balcanica fino alla Repubblica Ceca, la Polonia meridionale e l’Ucraina occidentale, nacque e si sviluppò una civiltà pre-indoeuropea agricola e sedentaria di carattere matrilineare, egalitario e pacifico con il culto di divinità femminili. Più tardi, con l’arrivo dalle steppe di popolazioni proto-indoeuropee patriarcali, nomadi e aggressive, tutto questo cambiò, le divinità divennero maschili e le culture assunsero i tratti poi riconosciuti come tipicamente indoeuropei. Secondo la studiosa, il culto delle divinità femminili, o di una divinità femminile nei suoi vari aspetti, continuò per più di ventimila anni in questo spicchio geografico che chiamò “Vecchia Europa”. Inutile dire che, nonostante i riscontri che Gimbutas produsse, in certi ambienti accademici le sue teorie cozzarono contro obiezioni spesso più di principio che di sostanza: che fosse esistita una civiltà articolata in maniera complessa da un punto di vista sociale e religioso, commercialmente attiva e tecnologicamente avanzata, come dimostrano le statuette e altre sculture, ma centrata sulla femminilità e sul potere – sacro – di dare la vita, significava scompaginare ipotesi che, col passare dei decenni, si erano trasformate in dottrina indiscussa e indiscutibile.

Marija Gimbutas non è un caso isolato. Certo non tutti coloro che propongono nuove teorie nel campo dell’evoluzione della specie umana sono credibili. La difficoltà di comprovare le proprie affermazioni a causa della grande distanza di tempo che ci separa da quegli avvenimenti è oggettiva, nonostante i progressi delle misurazioni, delle analisi di laboratorio, nonostante la possibilità di estrazione del DNA dai resti fossili. Il criterio con cui accettare o meno le nuove scoperte in questo campo dovrebbe essere lineare: ciò che dà una risposta plausibile ad interrogativi posti alla luce delle conoscenze che si hanno oggi dovrebbe essere accettato come una credibile ricostruzione del passato più remoto. Le altre dovrebbero rimanere congetture, pittoresche se volete, ma sempre congetture molto poco credibili. A meno che il tam tam mediatico corroborato da una certa inerzia accademica non le trasformi in pillole di conoscenza debitamente dosate in programmi televisivi o in rubriche di divulgazione scientifica, come è accaduto per Beringia, l’istmo di terra che nel pleistocene permise il passaggio di gruppi di popolazioni asiatiche verso l’America. Tutto il mondo ormai sa di quella passeggiata preistorica. Tutto il mondo conosce il ponte di terre emerse che collegava i due continenti all’altezza delle isole Aleutine. È un ponte famoso, ipotizzato nei modi più variegati: lungo e stretto, largo e imponente, di breve o media durata, era attraversato rigorosamente da ovest a est dagli esseri umani, mentre era a due corsie per la fauna preistorica dalle dimensioni notevoli – cammelli e cavalli da destra a sinistra, bisonti da sinistra a destra, dinosauri in entrambi le direzioni. Una vera infrastruttura per il collegamento continentale alquanto trafficata come lo sarà il prossimo venturo ponte di Messina. Intifico, si dice in Sicilia.

A onor del vero recenti scoperte archeologiche, unitamente all’applicazione delle tecnologie di avanguardia, stanno coagulando il consenso di gran parte degli studiosi dell’America precolombiana attorno ad alcuni nodi fondamentali, ad esempio il fatto che, contrariamente a quanto si pensi, gli abitanti autoctoni del Nord e del Sud America non vivevano immersi in una natura incontaminata, bensì avevano saputo sapientemente adattarla alle loro esigenze di sopravvivenza: in Messico avevano selezionato le specie di mais più nutrienti, più a sud avevano coltivato – incredibilmente – parti della foresta amazzonica senza danneggiarla, anzi preservandola. Nel nordest degli attuali Stati Uniti avevano modificato il paesaggio creando terrazzamenti di orticolture lungo i corsi d’acqua principali e mantenuto, quando non creato ex novo, ampi squarci di foreste per assicurarsi gli approvvigionamenti di selvaggina. Le più grandi città precolombiane, sia in Sudamerica che nel sudest degli Stati Uniti, erano meraviglie di architettura sia per gli standard dell’epoca che per quelli attuali in un periodo in cui in Egitto dovevano ancora sorgere le piramidi. Per non parlare di certi aspetti della vita quotidiana, come l’igiene personale, per la quale si avvalevano di deodoranti estratti da fiori profumati e balsami per capelli estratti dai semi di girasoli, foglie di bergamotto e petali di rose selvatiche; per lucidare e rendere morbidi i capelli i pikuni e i kootenai usavano aghi di pino mentre gli cheyenne un infuso di menta. Da nord a sud, per le popolazioni americane fu uno shock venire in contatto con persone (gli europei) dalla barba lunga ed estremamente maleodoranti.

L’igiene pubblica, poi, era curatissima quanto quella personale, per cui le strade mesoamericane erano linde, l’acqua corrente era presente nelle case e un sistema fognario portava lontano le acque reflue. Per conoscenze e tecnologia, quelle civiltà erano avanzatissime: quando in Europa si applicava ancora la medicina galenica, gli aztechi avevano un’approfondita ed esatta conoscenza dell’anatomia umana e del funzionamento del corpo, eseguivano operazioni chirurgiche come la rimozione della cataratta con sottili scalpelli di ossidiana, e gli shoshoni e i paiute conoscevano l’importanza dell’asepsi – quelle misure che servono per evitare la presenza di microrganismi patogeni apportatori di infezioni – che praticavano attraverso l’assunzione o l’applicazione di antisettici o disinfettati a base di erbe particolari. La trapanazione del cranio era comune per alleviare gonfiori o traumi tra i maya, gli anestetici erano ricavati da piante allucinogene come peyote, coca e stramonio, mentre da certe varietà di agave si estraevano sostanze antibiotiche. La matematica, l’astronomia, la geometria, il computo del tempo avevano raggiunto livelli altamente complessi, così come la metallurgia e l’idraulica.

Un altro punto di convergenza tra gli studiosi è il meccanismo di propagazione delle malattie europee nelle Americhe, tra cui il vaiolo e il comune morbillo, che si trasformarono ben presto in vere e proprie pandemie a causa della vulnerabilità dei nativo americani alla specifica malattia. Pare certo che il responsabile primario fu De Soto, la sua ciurma e soprattutto i 300 suini che portò con sé nel lungo viaggio verso il “nuovo” mondo, i quali contaminarono la fauna selvatica della valle del Mississippi e, di conseguenza, a causa delle mutazioni del virus, anche gli esseri umani. Gli scienziati chiamano queste malattie zoonosi, perché si trasmettono dall’animale all’uomo e viceversa. Furono queste pandemie l’arma efficace e letale con cui gli europei conquistarono l’America, in principio inconsapevolmente, più tardi contaminando di proposito col vaiolo le coperte che distribuivano nei forti o nelle riserve.

Il pomo della discordia rimane il ponte aleutino la cui solidità, ancora tutta da provare, si sta sgretolando sotto i colpi di recenti, seppur timide, controargomentazioni. A dare il “là” ad una critica ampiamente documentata alla teoria di Beringia è stato il professor Vine Deloria Jr (nella foto), di origini sioux. Con un graffiante senso dell’ironia, ha impietosamente demolito le fondazioni alquanto inconsistenti sia dell’emersione − improbabile – di terra, (che avrebbe richiesto un abbassamento di diversi metri del livello del mare a causa di una forte evaporazione nella zona tropicale e il convogliamento di quelle nubi cariche di acqua a latitudini ben più alte dove sarebbe ricaduta come neve per poi diventare, dati i tempi pleistocenici, altro ghiaccio) sia del “corridoio” tra la coltre di ghiacci che ricoprivano tutto il Canada e buona parte degli Stati Uniti continentali, il quale avrebbe permesso l’attraversamento, altrimenti impossibile per esseri umani e animali, in direzione sud, sud-est. Implacabile nello scardinare, Deloria è altrettanto puntuale nel proporre possibili e sensate risposte alle domande più comuni, come ad esempio la ragione per la quale un buon numero di animali pleistocenici scomparvero all’improvviso. Cancellando con la logica ferrea dello studioso la teoria per la quale gli antenati dei nativo-americani, i paleoindiani, avevano sterminato tutte le possibili prede, compresi mammut e mastodonti, gli antenati enormi degli elefanti moderni, egli richiama l’attenzione sulla strana ma documentata presenza di immensi depositi di resti animali fossili sia nelle isole siberiane (dove per più di un secolo vennero estratte tonnellate di zanne di elefanti preistorici per rivenderli sul mercato), che nel fango (il muck) di certe zone dell’Alaska.

Citando certi racconti delle popolazioni autoctone, Deloria non solo traccia una più plausibile spiegazione del popolamento del continente via mare, dato che la tecnologia marittima e le capacità di navigazione, come hanno dimostrato i kanaka maoli delle Hawai’i, c’erano e sono molto più antiche di dodicimila anni, ma propone altri possibili spunti di indagine scientifica, come quei singolari “uomini alti”, o giganti, dalla pelle chiara che appaiono in numerosi racconti di diversi gruppi nordamericani.

Nelle tradizioni orali sono incapsulate le memorie storiche di un popolo; l’esattezza nel tramandarle ne assicura la preservazione. Basterebbe solamente ascoltarle ed approfondirle ed indagarle, come ha insegnato Deloria per tutta la sua vita, per gettare una piccola luce su di un passato che rimane avvolto nel mistero. Ed evitare così ampollosi e supponenti svolazzi dell’immaginazione che, nonostante siano fatti passare per incontrovertibili spiegazioni, finiscono col prestare il fianco, presto o tardi, al pubblico ludibrio.

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