21.01.2006
di Anna Polliani (laureata in Lettere Classiche, è formatore e progettista presso l’ufficio Progettazione di Ceses. Ha coordinato interventi di formazione e di orientamento al lavoro per giovani e adulti disoccupati)
E’ sufficiente fare una semplice ricerca sui siti delle principali università del Nord e del Centro Italia, per constatare come si moltiplichino anno dopo anno le offerte formative rivolte a chi intende acquisire una professionalità ed operare nel mondo non profit, tra percorsi triennali e master di specializzazione. Questo dato è la risposta al progressivo aumento tra i giovani della domanda di un lavoro in contesti “altri” dal profit, con altre regole. Arrivati alla laurea triennali e dopo un master, per i giovani che intendano mettere un piede nel mondo del lavoro rimane da giocare la carta dello stage, che come è già avvenuto per le aziende, sta diventando di fatto un canale di immissione anche nel settore non profit. D’altra parte lo stage, spesso abusato al punto da acquisire i contorni dello sfruttamento, se ben definito tra le parti e opportunamente finalizzato, è uno strumento efficace di selezione, che consente al giovane di mostrarsi con le sue capacità e potenzialità di crescita e all’azienda di valutare consapevolmente l’immissione di un neoassunto. Insomma, a fronte di una forte offerta di «forza lavoro», ancora non vi sono dati significativi su come questa venga impiegata nelle Ong e nel Terzo settore, ma soprattutto, non è facile rintracciare un altro dato importante: quali sono le competenze professionalizzanti che servono alle Ong e al mondo del non profit, per rispondere alle sfide dello sviluppo, e come le agenzie formative rispondono. Mancano anche molte informazioni sulle modalità con cui i giovani, che hanno frequentato corsi e master specialistici, accedono a questo settore, sulle attività in cui vengono impiegati; se in ingresso prevalgono contratti di collaborazione a progetto o formule di volontariato, sulla tipologia delle mansioni svolte, sul livello delle retribuzioni, sulla formazione ricevuta dopo l’avviamento del lavoro… Al momento non esiste uno spazio ad hoc di confronto e discussione tra attori sul tema delle nuove competenze necessarie per il non profit, dove delineare il quadro complessivo di queste nuove professionalità che le università mettono a disposizione. Oltre al necessario raccordo tra i due mondi, dell’università e del Terzo settore, sarebbe sicuramente proficua una riflessione seria sul futuro del lavoro e delle professionalità nel non profit, capace di dare un indirizzo comune ad un settore che, anche se in minor misura nell’ambito cooperativo, vive una certa tendenza all’isolamento, al separatismo, e non si propone come «parte sociale» organica, capace di condividere esigenze analoghe. Il candidato ideale Ogni giorno arrivano decine di candidature alla nostra organizzazione: il cui comune denominatore è la passione per un lavoro che risponda all’esigenza primaria di aiutare gli altri. Ceses da sempre accoglie giovani con o senza esperienza, investendo su di loro costruisce il proprio futuro: hanno iniziato con uno stage, un tirocinio, un campo estivo. .. alcuni si fermano da noi, altri vanno in altre organizzazioni. Fino a pochi anni fa, per rispondere alla vocazione della solidarietà , era sufficiente fare il volontario. Oggi un ragazzo può scegliere di lavorare per gli altri con il suo bagaglio professionale: scrivere e redigere una rivista, organizzare eventi, trovare sponsor, gestire il contenuto di un sito e la comunicazione, progettare, partire come cooperante, fare lo psicologo o il formatore… insomma, quanti mestieri si possono fare dentro il non profit? Infiniti, ma tutti con la stessa vocazione: fare un mestiere con cui è possibile concretamente migliorare la società . Ora, mentre di recente le aziende iniziano a porsi seriamente questa sfida (come dimostra anche il «Salone della responsabilità sociale di impresa» tenutosi a settembre a Sesto San Giovanni) agli occhi dell’idealismo giovanile è ancora il non profit che offre la maggiore possibilità di giocarsi come lavoratore in una dimensione etica, di responsabilità rispetto al mondo in cui si opera. Forse i giovani dal non profit si aspettano un modo di lavorare più umano, meno stressante, capace di valorizzarli e di valorizzare le relazioni all’interno dell’organizzazione. Ovviamente, non è tutto rose e fiori. Non tutto il non profit è un’isola meravigliosa, anzi, i ritmi e le richieste per una cultura della dedizione sono forse ancora più pressanti, e non tutto il profit è un mondo arido e senz’anima. Sicuramente, tra i giovani il mondo non profit gode di un’immagine idealizzata e viene guardato dall’esterno troppo spesso con una lente di ottimismo che crea illusioni: in modo più realistico, oggi molte realtà non profit per sopravvivere e crescere vivono condizioni di competizione e tensioni, che richiedono risorse sempre più preparate e capaci di pianificare e gestire con efficienza e lungimiranza. Ci sono, di fatto, un avvicinamento ed una contaminazione più forte tra profit e non profit: basti pensare al peso sempre maggiore della comunicazione nelle campagne sociali, alla necessità di stringere partneriati con società potenti e pronte a sostenere le Onlus.
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