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Cono d’ombra (di Paola Carini)
31.01.2006
Gli avvenimenti devastanti che hanno sconquassato da un capo all’altro il globo - le due guerre mondiali del Novecento, la riduzione in schiavitù degli africani, la conquista dell’America - sono finiti sulle pagine dei libri come i più imponenti rivolgimenti della storia. All’acme della loro evoluzione, quei fatti hanno travolto con la loro efferatezza anime, corpi, certezze, speranze, e abbandonato dietro di sé strascichi infiniti, traumi insuperati, ferite mai rimarginate e questioni irrisolte destinate a riproporsi paurosamente simili, come le recenti pulizie etniche nel cuore dell’Europa e le dittature sanguinarie ma molto ben appuntellate nel continente americano. Anche a distanza di tempo, quando alla memoria diretta subentra l’indagine storica, le loro conseguenze continuano a bruciare furenti: si pensi al vergognoso occultamento dei documenti sulle stragi nazifasciste o ai figli di migliaia di desaparecidos sudamericani sottratti alle legittime famiglie.

Eppure esiste anche un corollario di guerriglie, violenze, intimidazioni che, senza fare clamore e senza suscitare eco, sottraggono sistematicamente alle persone i diritti basilari. È una zona umbratile della storia in cui accade di tutto, ma in sordina, e di cui è impossibile conoscere tutto. È un cono d’ombra in cui i bambini boscimani vengono uccisi dalla polizia del Botswana mentre cercano di difendere i propri padri in stato di arresto, questi ultimi rei di aver cercato di portare acqua e cibo ad altri boscimani assediati nella riserva su cui la De Beers ha indirizzato le proprie mire; è un cono d’ombra in cui i guaranì, tra gli altri, sono cacciati con la forza dalle loro abitazioni perché un’azienda che produce carta ha illegalmente confiscato le loro terre.

È piccolo, periferico, silenzioso, quel cono creato dall’ombra della storia ufficiale, ma inghiotte altrettanto ferocemente anime, corpi, certezze, speranze. E lo fa nei posti più impensati e impensabili del pianeta, dalle università americane in cui gruppi di studenti repubblicani creano liste di professori “rossi” arrivando a indire un premio in denaro per chi ne denuncia le idee femministe, progressiste, o liberal, al bacino amazzonico dove squadracce armate terrorizzano gli indios e li obbligano al lavoro coatto.

Non sempre la voce delle vittime riesce a levarsi oltre la cortina d’ombra; a volte è troppo flebile da udire. Altre volte, invece, riesce sorprendentemente a denunciare le aggressioni e le violazioni combattendo come Davide contro Golia. Con l’astuzia.

Il sette dicembre scorso Shiela Watt-Cloutier e altre 62 persone di origini inuit, in rappresentanza di tutti gli inuit dell’Alaska e del Canada, hanno inoltrato un esposto alla Commissione Interamericana per i Diritti Civili. In esso si accusano gli Stati Uniti di pesanti violazioni dei diritti umani nella regione circumpolare avendo essi una grande responsabilità nel riscaldamento globale. Dal momento che gli effetti immediati e più severi del surriscaldamento della Terra sono riscontrabili proprio nell’area artica - lo scongelamento del permafrost, il deterioramento delle condizioni del ghiaccio e della neve, l’innalzamento della temperatura - la sussistenza stessa di quelle popolazioni è messa in grave rischio. Da qui l’inoltro.

In un corposo e dettagliato atto di denuncia, 63 cittadini comuni hanno deciso di sfidare la più forte potenza del mondo costringendola a rispondere delle proprie massicce immissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, quando in ogni sede internazionale il governo Bush ─ con forti interessi petroliferi ─ non ha fatto altro che manifestare il proprio disprezzo per il protocollo di Kyoto sottoscritto dal predecessore Clinton. L’abile mossa degli inuit non ha certo la forza giuridica di obbligare gli Stati Uniti ad applicare i termini del protocollo, ma di certo li obbliga a rispondere. Il fine della petizione è quello di inchiodare il governo americano alle proprie responsabilità, sbugiardandolo con pagine e pagine di dati sugli effetti del surriscaldamento estrapolati da studi di associazioni scientifiche, dello stesso governo americano e dell’Accademia Nazionale delle Scienze. E la Commissione Interamericana per i Diritti Civili, pur intrinsecamente debole, è proprio la sede adatta affinché questo avvenga.

Nata come organo autonomo dall’Organizzazione degli Stati Americani (OAS), essa si suddivide in una Commissione e in una Corte per i Diritti Civili. I membri sono eletti dall’Assemblea Generale dell’OAS, mentre altri sette non rappresentano alcun paese in particolare. Per promuovere la difesa dei diritti, la Commissione si rifà alla Dichiarazione Americana per i Diritti e i Doveri dell’Uomo del 1948 e alla Convenzione Americana per i Diritti Umani del 1969. Le sue funzioni sono quelle di analizzare e approfondire l’investigazione di ogni denuncia di violazione dei diritti umani, pubblicare quando necessario l’analisi di una determinata situazione all’interno di un paese membro, promuovere seminari, incontri pubblici e ogni altro mezzo per sensibilizzare gruppi, singoli, o istituzioni al rispetto dei diritti, raccomandare agli Stati le misure da adottare per difenderli e, in certi casi, richiedere che la Corte intervenga per imporre misure cautelative qualora la violazione dei diritti umani sia particolarmente grave. In più, essa attua un costante monitoraggio dei diritti umani di donne, bambini, minoranze etniche, gruppi tribali.

Articolato nella petizione alla Commissione c’è un ragguardevole background legislativo a sostegno della causa degli inuit. Si ricorda innanzitutto che sin dal 1972 la posizione della Commissione è stata quella di sostenere che la protezione delle popolazioni indigene delle Americhe è un obbligo preciso degli stati. La norma è stata recepita anche nella legislazione internazionale, imponendo agli Stati di proteggere il diritto delle minoranze alla propria lingua, alla propria religione, alla propria cultura. In più, essendo stato riconosciuto che nel caso dei popoli autoctoni i diritti sono inscindibili dalla conservazione del contesto ambientale e culturale, nel caso degli inuit la protezione dei diritti umani è subordinata alla protezione dell’ambiente artico, dato lo stretto rapporto con il territorio da cui essi traggono sia sostentamento che riferimenti culturali e religiosi.

Allo stato delle cose, i diritti degli inuit non sono più garantiti.

Gli Stati Uniti, essendo i primi responsabili a livello planetario delle emissioni di anidride carbonica derivata dall’uso massiccio di combustibili fossili, sono anche coloro che più direttamente contribuiscono al surriscaldamento del globo. La crescita delle emissioni di gas serra ha avuto come effetto il cambiamento drammatico del paesaggio artico: il ghiaccio è sempre più sottile, la neve cade meno abbondante, il tempo è soggetto a frequenti modificazioni che rendono arduo o impediscono il perseguimento dei modi tradizionali di sussistenza: la neve non permette la costruzione di igloo, e la pesca o la caccia nei periodi invernali è diventata estremamente pericolosa per il rischio frequente di rottura dello strato ghiacciato. La conoscenza tradizionale dei luoghi, delle nevi, del tempo meteorologico è improvvisamente diventata inaccurata, minando così il cuore della cultura inuit e sfaldando pezzo a pezzo la preziosa TEK, la tradizionale conoscenza ecologica di quelle popolazioni.

“Per atti e omissioni”, continua la petizione, gli Stati Uniti stanno violando i diritti umani degli inuit, mentre sono obbligati dalla legislazione internazionale ad assumersi le proprie responsabilità per aver contribuito al cambiamento climatico globale diminuendo le emissioni e pagando risarcimenti a coloro che ne hanno subito i danni.

Come risponderanno gli Stati Uniti di Bush a queste circostanziate accuse? Minimizzando le proprie responsabilità? Esibendo dati di scienziati compiacenti che contraddicono quelli presentati dagli inuit? Dichiarando una cosa e facendone un’altra, scindendo le parole dai fatti come per Guantanamo, per cui la tortura a parole è condannata mentre è praticata liberamente lontano dagli occhi dell’opinione pubblica?

Chissà.

Per il momento 63 semplici cittadini hanno avuto il coraggio di alzarsi e puntare il dito contro la più grande potenza del mondo rimandando al mittente la responsabilità di una politica energetica scellerata. Per il momento, sia la Commissione che la Corte Interamericana per i Diritti Umani hanno stabilito che la Dichiarazione Americana per i Diritti e i Doveri dell’Uomo è oggi fonte di obblighi a livello internazionale per gli Stati dell’OAS.

Per il momento, in angoli lontani e sconosciuti del pianeta, bambini di sette anni fanno scudo col proprio corpo a padri arrestati ingiustamente.

Per il momento, il mondo come lo vorremmo sta nella forza delle idee e nel coraggio di coloro che abitano in quel cono d’ombra.

Paola Carini

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Nella foto: Sheila Watt-Cloutier

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