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Decontribuzione: come e per chi?
11.02.2006
Tito Boeri e Pietro Garibaldi / LaVoce.info

Romano Prodi ha annunciato pubblicamente che, qualora l’Unione vincesse le elezioni, l’azione di politica economica del suo Governo punterà ad abbassare il costo del lavoro fino a "5 punti percentuali nel primo anno". È indubbiamente un’idea forte, che caratterizzerà la campagna elettorale dei prossimi mesi e la politica economica della prossima legislatura. Bene, dunque, dedicarle fin da subito la massima attenzione e sollecitare doverosi chiarimenti.

Gli effetti della decontribuzione

Il primo chiarimento è essenziale: ogni proposta che comporta aumenti della spesa pubblica (o riduzioni del gettito fiscale e contributivo) dovrebbe essere corredata da dettagli sulle coperture. Immaginiamo che questi dettagli verranno resi noti nel programma. Nella fattispecie non si tratta di un dettaglio trascurabile. Nel caso in cui la decontribuzione fosse estesa all’intera platea dei lavoratori subordinati, costerebbe attorno a 10 miliardi di euro, quasi un punto di Pil.
Questo ci porta direttamente al secondo quesito: si intende davvero ridurre i contributi per tutti i lavoratori dipendenti o solo per quelli con salari più bassi? Diverse ragioni ci fanno ritenere che solo un intervento limitato ai lavoratori con bassi salari sarebbe alla portata di un eventuale Governo Prodi. Proviamo a chiarire perché.
Gli effetti della decontribuzione vanno esaminati da almeno tre punti di vista: i) quello della competitività del sistema, ii) quello del sistema previdenziale, e iii) quello della finanza pubblica.
Partiamo dalla competitività del sistema. Nel breve periodo, a livelli salariali invariati, le imprese non possono che beneficiare di una riduzione del costo del lavoro. Questa riduzione aumenterà la competitività del paese, generando maggiori investimenti e maggiori assunzioni. Gli effetti sulla competitività nel medio periodo sono più incerti, in quanto è molto probabile che parte della riduzione dei contributi si trasformerà in aumenti salariali. I dati sul modo con cui l’offerta di lavoro reagisce a cambiamenti nel salario ci fanno ritenere che quest’effetto di traslazione della decontribuzione sarà relativamente forte per i lavoratori maschi in età centrali, caratterizzati da un’offerta di lavoro "rigida" e "stabile". In sostanza, se l’obiettivo di politica economica è quello di aumentare la competitività nel medio-lungo periodo, la riduzione contributiva dovrebbe concentrarsi sui lavoratori meno stabili sul mercato del lavoro, quali le donne, i giovani, e i lavoratori a bassa produttività che spesso agiscono ai confini con il lavoro sommerso. Per questo tipo di lavoratori, una riduzione contributiva dovrebbe garantire una riduzione del costo del lavoro nel lungo periodo.

Le conseguenze sul sistema previdenziale

Più problematici sono gli effetti della decontribuzione sul sistema previdenziale. A seguito della riforma Dini del 1995, il sistema pensionistico sta progressivamente diventando un sistema basato sul metodo contributivo, dove il valore della pensione ricevuta è strettamente collegato al valore dei contributi versati. Se una parte consistente del finanziamento della pensione dovesse passare alla fiscalità generale, si spezzerebbe il legame contributi-pensioni, quel meccanismo "assicurativo" che stava lentamente entrando nelle mentalità dei lavoratori italiani, responsabilizzandoli rispetto alle loro pensioni future e facendo loro percepire i contributi previdenziali non come una tassa, ma come un accantonamento per la vecchiaia. Il nuovo sistema pensionistico prevede, tuttavia, dei minimi, dei trattamenti minimi che andrebbero garantiti a coloro che andando in pensione si ritrovassero con quiescenze inferiori ai minimi di legge. Quindi l’unico modo per salvaguardare l’asse portante del nuovo sistema pensionistico consiste nel concentrare la decontribuzione su quei lavoratori che, percependo salari molto bassi, sono a forte rischio di ricadere nella platea dei beneficiari delle sole pensioni minime. Il tutto andrebbe fatto in modo molto trasparente offrendo ai lavoratori beneficiari della decontribuzione un quadro preciso di quanto guadagnerebbero in termini di pensioni future uscendo dalla zona di decontribuzione. Questo è molto importante anche per evitare che i lavoratori rimangano "intrappolati" in lavori a bassi salari.

Dove trovare dieci miliardi?

I problemi più grossi dell’operazione sono quelli legati alla finanza pubblica. Una decontribuzione estesa a tutti i lavoratori dipendenti costerebbe circa 10 miliardi di euro. Non crediamo possibile che nel primo anno di Governo si possano ridurre le spese, mediante tagli, per questa cifra. Bisognerà allora individuare 10 miliardi di nuove entrate. Dove? Le opzioni sono limitate: aumento dell’Iva, aumento dell’imposta sui redditi da capitale, o aumento dell’Ire. La tassazione dei redditi da capitale è coerente con un disegno di riequilibrio della tassazione di lavoro e capitale, ma è bene ricordare che le stime esistenti suggeriscono che una manovra che uniformasse le aliquote sui redditi di capitale al 23 per cento frutterebbe attorno ai 3 miliardi di euro. Dove si troveranno gli altri 7 miliardi? Una opzione potrebbe essere quella di annullare il secondo modulo della riforma fiscale del Governo Berlusconi, che ammontava a circa 6 miliardi di euro e di cui nessuno sembra essersi accorto. Ma in televisione Prodi ha escluso di volerlo fare. Rimane la possibilità di agire sull’Iva, aumentandone l’aliquota. Una simile proposta era nel programma di Angela Merkel, ma le aliquote tedesche sono inferiori a quelle italiane. E si rischierebbe di alimentare l’inflazione. Chiaramente, tutti questi problemi sarebbero molto più limitati nel caso di decontribuzione circoscritta ai soli lavoratori con bassi salari: costerebbe tra i 2 e i 3 miliardi di euro, a secondo della definizione dell’area di esenzione. Sarebbe quindi interamente finanziabile con l’inasprimento della tassazione delle rendite finanziarie.

Fonte: http://www.lavoce.info/news/view.php?id=9&cms_pk=1987&from=index

mt

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