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80 anni fa moriva Piero Gobetti
16.02.2006
Lo ricorda Giancarlo Iacchini, responsabile cultura dei Radicali di Sinistra, professore di Storia e Filosofia a Pesaro
«Bisogna rendere la vita difficile a questo insulso oppositore», aveva detto Mussolini riferendosi al giovane Piero Gobetti, e gli squadristi del regime eseguirono l’ordine: l’intellettuale piemontese, di cui si è celebrato nel 2001 il centenario della nascita, fu selvaggiamente picchiato e poi costretto all’esilio in Francia, dove morì pochi mesi dopo (il 15 febbraio del 1926) per i postumi delle percosse ricevute, all’età di appena 25 anni.

Figura a suo modo unica nel panorama culturale italiano tra le due guerre – scrittore, giornalista, editore, instancabile animatore culturale – Gobetti fondò quando aveva ancora soltanto 17anni la sua prima rivista politica, Energie nove (1918), cui farà seguito di lì a poco la sua più celebre esperienza giornalistica, il periodico Rivoluzione liberale che animò e diresse con impegno e passione, seguendo ad esempio in presa diretta, nella sua Torino, l’esperienza dell’occupazione delle fabbriche ed instaurando una “grande amicizia” (come lui stesso la definì) con Antonio Gramsci. Il fondatore del Partito comunista gli chiese di collaborare al giornale da lui diretto, L’ordine nuovo, e Gobetti – conosciuto fino ad allora come un promettente discepolo di Benedetto Croce – decise di accettare l’offerta.

Ciò contribuì non poco ad intensificare l’”attenzione” delle autorità fasciste verso la sua attività di oppositore del nascente regime, nonché a moltiplicare le diffidenze che anche gli esponenti più illustri del pensiero liberale nutrivano nei suoi confronti. In effetti le sue idee politiche, ritenute spesso ibride e incoerenti, rappresentano una “eretica” fusione di liberalismo e socialismo, un difficile ma originale incontro tra le istanze progressiste della borghesia – riconosciute peraltro dallo stesso Marx nel Manifesto – e la spinta democratica ed egualitaria proveniente dalle classi lavoratrici. Questa fusione si esprime nel titolo che Gobetti diede alla rivista da lui fondata: Rivoluzione liberale.

Ma come è possibile essere “liberale” e insieme “rivoluzionario”? Riconoscendo, da parte socialista, che «il problema del movimento operaio è un problema di libertà e non di eguaglianza sociale»; ed ammettendo altresì, da parte liberale, che la libertà non può essere un privilegio riservato ad una élite illuminata, ma una potenziale conquista di ciascuno in tutti i campi della vita sociale.

«Quando Gobetti parlava di liberalismo – osserva Norberto Bobbio – intendeva riferirsi non ad una determinata teoria dello stato, a quella teoria dei limiti del potere statale che era stata elaborata dai costituzionalisti inglesi e francesi, ma ad una concezione globale della vita e della storia, secondo cui la storia è il teatro delle lotte tra gli uomini, e solo nell’antagonismo degli interessi, nell’antitesi delle forze politiche, nel dibattito delle idee, risiede la molla della civiltà e del progresso».

Ecco perché la stessa “rivoluzione” è vista da Gobetti come un atto liberale, alla stregua di qualunque iniziativa in grado di squarciare la cappa soffocante del conformismo, dell’unanimismo, del consociativismo, del corporativismo.

La dialettica degli opposti, come sostiene (ma spesso solo in teoria) anche il marxismo, è un carattere essenziale e ineliminabile della realtà, che però non prevede nessuna “sintesi” e non scompare dopo la “rivoluzione”, poiché sopprimendo la libera dialettica delle forze e delle idee si creerebbe soltanto una società totalitaria ed oppressiva. Al contrario, per Gobetti, la libertà è un fine politico e morale, un valore che non può mai essere sacrificato, neppure in nome della pur nobile lotta per l’uguaglianza.

Il progresso sociale dovrà riuscire a coniugare uguaglianza e libertà, poiché Gobetti era convinto – come scrive lo storico Lucio Villari – «che il liberalismo non poteva che evolversi in una forma di democrazia progressiva».

Ma in nessun caso l’ideale dell’uguaglianza avrebbe dovuto portare ad una limitazione dei diritti individuali. Ostile allo statalismo imperante nel pensiero socialista e favorevole al “libero mercato” capitalistico, Gobetti guardava tuttavia con altrettanto favore alle agitazioni operaie, e spiegava l’apparente paradosso sostenendo che proprio l’opposizione e le contraddizioni vivificano la realtà: pertanto «la lotta di classe rafforza il sistema borghese», rendendolo migliore e più aperto alle istanze sociali.

Riprendendo e sviluppando il modello teorico di Carlo Cattaneo (1801-1869) – eroe risorgimentale delle “cinque giornate di Milano” ed isolato fautore, contro il moderatismo monarchico ma anche contro il centralismo mazziniano, di una “repubblica federale” italiana ed in futuro anche europea – delinea un ideale politico progressista e federalista: «Una società molteplice, libera, articolata, viva per l’interna dialettica delle sue forze, realizzantesi contro ogni paternalismo in infinite autonomie».

Ed anche sul piano culturale Gobetti rilancia, in sintonia con l’illustre predecessore, «la speranza di una nuova età illuministica, fondata sulla vittoria della ragione contro l’istinto, della civiltà contro la barbarie, della serietà contro la retorica» (N. Bobbio).

Quello che in quegli anni drammatici lo spaventa e lo indigna, più ancora dell’avvento della dittatura e del violento prevalere di un regime liberticida, è il consenso che la svolta autoritaria può incontrare nelle masse, storicamente inclini ad accettare il conformismo, l’omologazione, il “paternalismo corruttore” e disabituate alla critica, al pluralismo conflittuale, alla lotta aperta delle posizioni politiche e ideali. Insomma, peggio del fascismo c’è il “mussolinismo”. Come spiega a conclusione del saggio La rivoluzione liberale, «il mussolinismo è un risultato assai più grave del fascismo stesso, perché ha confermato nel popolo l’abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza». E allora «il problema è di lavorare per un’Italia che abbia intima ripugnanza per il fascismo, per i sistemi paternalistici, per i blocchi e le concentrazioni; per un’Italia in cui ognuno sappia sacrificarsi per idee precise e distinte. Questo mi pare realismo politico».

Una realistica... utopia che, a distanza di circa 80 anni, appare ancora quanto mai attuale, così come la laica “passione libertaria” che animava Piero Gobetti nel suo impegno instancabile per una crescita del senso critico e della responsabilità individuali, contro dogmi e “chiese” di ogni tipo, per un progresso fondato sulla liberazione, l’autonomia e l’autogoverno delle persone e dei gruppi sociali.

Giancarlo Iacchini
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