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Verga a Milano e la colonia dei siciliani
18.02.2006
Vincenzo Consolo / La Sicilia
"Come d'arbor cadendo un picciol pomo, / [ ] d'un popol di formiche i dolci alberghi, / [ ] schiaccia, diserta e copre / in un punto; così d'altro piombando, / dall'utero tonante / scagliata al ciel profondo, / di ceneri e di pomici e di sassi / notte e ruina ".
Così la visione del mondo, della vita degli uomini, del Leopardi de La ginestra. E simile a quella del poeta di Recanati crediamo sia la visione di Giovanni Verga: di una natura matrigna, avversa e minacciosa, della sua aridità e desolazione, del suo aspetto di tempesta pietrificata, dell'impotenza dell'uomo, del suo fatale, ricorrente scacco, della fragilità sua di formica che il caso ha posto sotto il cratere d'un vulcano, nell'irredimibilità dell'esistenza.
"Vi siete mai trovata, dopo una pioggia d'autunno, a sbaragliare un esercito di formiche tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Ognuna di quelle povere bestiole sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di panico di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno" scrive Verga in quella dichiarazione di nuova poetica, in quella anticipazione de I Malavoglia che è la novella Fantasticheria.
E ancora nella novella I galantuomini, nella straordinaria descrizione di una eruzione vulcanica e della distruzione che la lava scorrendo cagiona, così scrive: "Chi non stava a guardare si affaccendava a levar tegole, imposte, mobili, a sgombrar le camere, a salvar quello che si poteva, perdendo la testa nella fretta e nella disperazione, come un formicaio in scompiglio".
Il mondo dunque come luogo aspro e inospitale al pari d'un vulcano; la vita degli uomini come quella precaria e disperatamente ostinata delle formiche. E nel deserto della natura e della storia, unica consolazione si trova nell'"odorata ginestra", nella fratellanza umana; si trova nella religione della tradizione e nei legami famigliari, nell'attaccamento, tenace come quello dell'ostrica allo scoglio, al paese natio.
Leopardi giunge alla metafora del vulcano, trovandosi a Torre del Greco, davanti allo "sterminator Vesevo", davanti alle antiche città sepolte che si chiamavano Pompei, Ercolano, Stabia; Verga sul Vulcano, sopra le lave dell'Etna, sotto il suo cielo di cenere, era nato: di Vizzini, dei paesi etnei, dei campi liberati dal duro sudario di lava e restituiti alle colture, degli stagni, delle fiumare, delle sciare, dei geli degli inverni e dei caldi implacabili delle estati si portava da sempre dentro sepolto il ricordo, così profondamente da credere di averlo cancellato.
Cosa avvenne perché a un punto lo scrittore di Vizzini si vedesse incenerire nelle mani tutti i fogli che fino a quel punto aveva scritto, perché fosse investito dallo smarrimento, dalla crisi di identità che faceva riemergere la memoria sepolta, il nero mondo che aveva rimosso? [...]

Vedi il seguito: http://www.lasicilia.it/giornale/1602/CT1602/CS/CS01/03.html

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