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Civiltà (di Paola Carini)
25.02.2006
Della conquista del continente americano molto si è scritto e molto è ancora da scrivere ma, tra i testi fondamentali, rimarrà a lungo la lucida analisi di Tzvetan Todorov intitolata “La Conquista dell’America. Il problema dell’altro”.
Lo studioso francese di origini bulgare è uno dei pochi ad individuare le spinte profonde che hanno trasformato popolazioni europee in “conquistadores” e, soprattutto, a porre domande piuttosto scomode. Cosa ha scatenato, ad esempio, l’efferatezza spagnola nei confronti degli “indios”, che venivano tagliati a brandelli ancora vivi, impiccati agli alberi con i figli impiccati alle loro caviglie, o ancora smembrati, torturati, violentati? La crudeltà umana? Una follia omicida? La sete di oro e di ricchezze? Oppure gli spagnoli sono stati i principali precursori, come sostiene l’autore, dell’essere umano moderno privo di morale che uccide per il piacere di uccidere? E perché i massacri sono “intimamente legati” ad ogni guerra, coloniale e non? È solo perché, essendo compiuti in luoghi lontani, in America come nella sconosciuta regione del Darfur, possono passare sotto silenzio più facilmente, al giorno d’oggi con la compiacente collaborazione di certa stampa “libera”? Oppure la ragione è quella individuata da Todorov, ossia il fatto che entrano in gioco “leggi morali diverse” – ammesso che si possa parlare di moralità - quando ci si trova in contesti scarsamente illuminati, per cui diventa lecito fare di tutto, compresa la riduzione di interi popoli nella più aberrante condizione umana che è la schiavitù?
Tragicamente, è proprio da quei contesti che scaturisce l’aggettivo che qualifica del sostantivo “civiltà”.

Al cuore delle quattro sezioni in cui si suddivide il libro c’è, giustamente, l’individuazione della percezione che i conquistadores e gli europei dell’epoca avevano dei popoli americani e ciò che ne derivò, ovverosia genocidio e schiavitù. Colombo catturava gli indios, indifferentemente vivi o morti, per riportarli in patria insieme a campioni di piante e animali. Cortés fu così scaltro da voler conoscere Moctezuma e il suo impero per poi assestargli il colpo mortale che lo mandò in frantumi. Las Casas “difese” gli abitanti del “Nuovo Mondo” affidandosi ai principi cristiani di uguaglianza davanti a Dio ma insistette sulla necessità dell’evangelizzazione come aveva fatto Paolo III nella Sublimus Dei, la Bolla Papale del 1537 in cui proibiva la loro riduzione in schiavitù caldeggiandone al contempo la conversione; il potere temporale, nella veste della regina Isabella e di Carlo V, ordinò misure similari. Ciò nonostante, la schiavizzazione e il massacro del continente continuarono floridamente anche quando ai colonizzatori originari subentrarono orde di altri europei in cerca di fortuna.
Semplificando, in circa tre secoli gli indios vennero massicciamente schiavizzati e quasi sterminati, gli indiani di una buona fetta del Nord America, rivelatisi dei pessimi schiavi, vennero altrimenti decimati, e gli africani, catturati e imbarcati come bestie, vennero infine scelti per rimpinguare le fila lasciate sguarnite a causa di quell’olocausto. In ultima analisi la pratica della schiavitù in America, che ha assunto aspetti e caratteristiche specifici a seconda dei luoghi e delle epoche storiche, non è che la conseguenza di quel primo, fatidico incontro con l’altro. E una cosa che non fa certo onore alle civiltà europee.

Si dice che le prime parole pronunciate dagli aborigeni australiani in presenza della popolazione carceraria sbarcata dalla First Fleet nel 1788 furono: warra warra! (andatevene via!). Nonostante la lungimirante e ferma intimazione, anche a loro toccò in sorte una conquista con sviluppi tragicamente simili a quelli del continente americano. Pochi anni prima, nel 1769, Padre Junipero Serra giunse nella California autoctona miracolosamente scampata fino a quel momento all’invasione europea, e scrisse di essere stato accolto bene. In realtà già nel 1579 Sir Francis Drake era sbarcato nel nord della penisola entrando in contatto con i coast miwok che lo accolsero con doni e cibo. Ripartì poche settimane dopo, ignorando che lui e la ciurma erano stati scambiati per gli antenati defunti giunti a far visita dalla terra dei morti che, per i miwok, si trova proprio nella stessa direzione da cui Drake era venuto. Nel 1602 il mercante Sebastian Vizcaino, partito da Acapulco, approdò in prossimità della odierna San Diego e immediatamente ne impose il toponimo. Benché sporadicamente, sin dal 1500 sia spagnoli che portoghesi misero in pratica la curiosa abitudine di giungere in California e dichiararla propria e poi andarsene, almeno per un altro paio di secoli, ignari di chi la abitasse. Fu soltanto nel diciottesimo secolo, quando le mire degli Stati Uniti sulla California cominciarono a risvegliarsi e i russi cominciavano a scendere da Nord, che la Spagna decise di agire: sebbene il territorio non fosse particolarmente allettante – l’oro fu scoperto solo il secolo successivo – bisognava però occuparlo prima che lo facessero gli altri.

Dalla baia di San Francisco sino a quella di San Diego, sotto la guida di Padre Serra fiorì un sistema di missioni francescane che avevano lo scopo di convertire in massa le popolazioni autoctone. In realtà le missioni erano presidi militarizzati in cui i neofiti venivano obbligati al lavoro della terra e rinchiusi all’interno delle missioni stesse. Nel giro di settant’anni più di 80.000 dei circa 340.000 nativo-americani della regione vennero “convertiti”.
L’evangelizzazione fu coatta e lo scopo era chiaro: avere manodopera gratis e sottomessa a disposizione degli immigrati spagnoli a cui la corona aveva garantito ampi appezzamenti di terreno coltivabile. In altre parole, la religione fu un congruo mezzo per l’estirpazione delle pratiche religiose e sociali autoctone, per la cancellazione delle lingue originarie e per l’annientamento culturale di gruppi interi. L’abiezione fisica, ovvero la riduzione in schiavitù, non fu che l’ultimo tassello.

Le forme di resistenza autoctone non mancarono e furono variegate: parecchi riuscivano a fuggire, altri si difendevano con tattiche di guerriglia piuttosto efficaci, nonostante il fatto che le numerose popolazioni californiane non avessero tradizioni guerresche come, per esempio, gli indiani delle Pianure. Le donne abortivano spesso, pur di non mettere al mondo creature concepite a seguito dei frequenti stupri; la religione nativa veniva tenacemente mantenuta dietro l’apparente adesione al culto cristiano; qualche volta i padres venivano avvelenati. Di kumeyaay, chumash, cahuilla, mohave, tanto per citarne solo alcuni, la Storia ricorda rivolte spettacolari.

Quando il Messico si affrancò dalla Spagna e divenne stato (1820), la situazione nella colonia collassò. In meno di sessant’anni le popolazioni native erano state decimate dalle malattie, dalla fame, dalla schiavitù, pur continuando la loro strenua resistenza; l’autorità dello stato centrale, che fosse quello spagnolo o messicano, era di fatto inesistente. Sebbene il sistema delle missioni spagnole venne smantellato dai messicani, le condizioni di vita non migliorarono affatto per gli indiani.
La guerra che oppose Stati Uniti e Messico vide i nativo-americani schierarsi per la gran parte con i primi ma, pur uscendone vincitori, la situazione per la California autoctona cambiò poco. Proprio nel 1848, anno del trattato di Guadalupe-Hidalgo che sancì la fine della guerra tra americani e messicani, si scatenò la corsa all’oro. Frotte di genti provenienti dall’est giunsero in California determinate a diventare ricche, in un modo o nell’altro, e gli indiani, piegati dalla fame e dagli stenti e privati di gran parte delle terre tribali, si misero a lavorare in miniera o a cercare oro per sopravvivere. Nel giro di breve tempo, quando la California divenne stato, le cose peggiorarono ulteriormente. Il metodo che il governo federale applicò per sbrogliare la matassa californiana fu quello usuale, cioè redigere trattati come era stato fatto per gli altri gruppi indiani che avevano ceduto le loro terre in cambio delle riserve, con un unico intoppo: l’illimitato territorio americano finiva proprio lì, con la costa lambita dal Pacifico. Lo spazio per rimuovere (e rinchiudere) gli indiani era esaurito, e la convivenza tra bianchi e nativo-americani, proprio perchè oramai i primi superavano di gran numero i secondi, divenne impossibile.

Tutti e diciotto i trattati stilati – a fronte di una popolazione originaria composta da ben 139 gruppi tribali distinti − vennero insabbiati dal Senato, che si rifiutò di ratificarli. Il novello stato della California creò una legislazione che autorizzava, de iure e de facto, il linciaggio, il sequestro di persona, il lavoro coatto e quindi la riduzione in schiavitù degli indiani, compresi i bambini. Bande di persone senza scrupoli battevano lo stato per catturare donne, uomini e bambini terrorizzati e rivenderli al miglior offerente. La caccia all’uomo era stata aperta. E autorizzata dalla legge.

Nel 1870, quando finalmente si decise di trasformare una manciata di acri in riserve, il governo diede la responsabilità della loro gestione a varie confessioni cristiane. Quaccheri, metodisti e battisti si assunsero l’incarico di salvare le anime di quei pagani impiegando metodi coercitivi di evangelizzazione, trasformando così le riserve in qualcosa di molto simile alle missioni dei loro predecessori cattolici. Per risolvere definitivamente il “problema indiano”, nel 1871 il Congresso si pronunciò contro ogni possibilità futura di avviare ulteriori trattati. Nel 1872-73 uno sparuto gruppo di modoc tenne in scacco per un anno intero il potente esercito degli Stati Uniti nell’ultima rivolta indiana della California. In periodi successivi altri sistemi di “assimilazione” dei nativo-americani vennero elaborati, e tutti poco edificanti. Solamente negli ultimi decenni del Novecento la legislazione federale, con limiti e pecche, ha riconosciuto loro diritti e sovranità, benché permangano, come più volte illustrato in questa rubrica, aspetti discriminatori e razzisti piuttosto pesanti.

Ma il retaggio della conquista non si esaurisce qui.

Nella sezione sullo schiavismo e sul colonialismo provocatoriamente intitolata “Amare”, Todorov pone una domanda destabilizzante nella sua semplicità. Las Casas amava gli indiani in quanto cristiano e amandoli rispettava i dogmi cristiani – le due cose si alimentavano a vicenda; ma si possono amare altre culture per quello che sono, non facendone la proiezione di noi stessi o dei nostri ideali – religiosi o laici che siano?

La risposta è da ricercare in quei contesti scarsamente illuminati dove giace l’aggettivo che qualifica il sostantivo “civiltà”.

Paola Carini

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