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La curva del Dormiglione
1.03.2006
La curva del Dormiglione: anche le stronzate sono migliorate
di Federico Mello (da www.generazioneidrogeno.org)

Vi è mai capitato di provare un piacere sottile, a tratti inquietante, emozionandovi davanti al “Grande Fratello”? Vi è mai successo di godervi, di piacervi, apprezzarvi, uccidendo il mostro dell’ultimo quadro di un qualsiasi videogioco? Ma ancora di più, vi è mai capitato di trovarvi, in pubblico, a difendere la vostra passione per forme d’intrattenimento e di cultura spesso bollate come inutili, se non stupide o dannose? Ebbene, è finalmente arrivato il libro che da senso e teoria a queste sensazioni, un libro utile da mettere subito nel vostro zainetto mentale tra la fionda mediatica e la borraccia culturale. Un libro che, seppur fornito di un titolo pessimo (“Tutto quello che fa male ti fa bene”, di Steven Johnson, Mondadori Strade Blu), risulta a nostro avviso davvero eccezionale.

Steven Johnson costruisce davanti ai nostri occhi un grafico particolare, che a prima vista potrebbe apparire strampalato: la “curva del dormiglione”. “Il dormiglione” è un vecchio film di Woody Allen, ambientato nel futuro (2173). Ai nostri fini è importante un frammento specifico del film: quando un gruppo di scienziati risveglia il protagonista – ibernato da 200 anni- e gli rivolge delle domande sul passato.

Alle risposte del protagonista, gli scienziati rimangono allibiti dal fatto che nel ‘900 non fossero ancora state comprese le straordinarie proprietà nutritive di merendine e torte alla crema.

Cosa c’entra tutto ciò con Grande Fratello e videogiochi? – verrebbe subito da chiedersi.

Ebbene, Johnson utilizza questo sketch paradossale, per delineare una situazione che altrettanto paradossale apparirà tra qualche anno a scienziati sociali e cittadini comuni. Nessuno potrà credere, infatti, che qualche manciata di anni prima non venisse pubblicamente riconosciuto l’impatto benefico che videogiochi, televisione e cinema hanno sul nostro apprendimento, sulla nostra intelligenza, sulle nostra capacità analitiche e decisionali.

La “Curva del Dormiglione” è quindi utilizzata per tracciare il grafico totale dell’intelligenza e delle capacità umane, in costante aumento negli ultimi decenni grazie anche all’apporto dei nuovi consumi culturali di massa: “Questa è l’esame finale della teoria della curva del Dormiglione: anche le stronzate sono migliorate”.

Johnson va contro i triti luoghi comuni del “si stava meglio quando si stava peggio”, “la televisione oggi fa schifo”, “i videogiochi trasformano i giovani in assassini”, ecc. ecc.. e dimostra piuttosto come Televisione, Videogiochi, e Cinema ci hanno reso negli anni più intelligenti, e come la comparsa di Internet – digitale ciliegina sulla torta – abbia amplificato enormemente queste possibilità. L’analisi è condotta seguendo diversi aspetti: strutture narrative, meccanismi cognitivi, forme di apprendimento, implicazioni comunicative e simboliche e, naturalmente, l’indispensabile esperienza personale.

La prima cosa che balza agli occhi è la complessità: videogiochi, cinema, e televisione hanno aumentato in maniera considerevole la complessità delle loro produzioni negli ultimi decenni. Se confrontassimo per esempio una puntata di Dallas, con una dei Simpson noteremmo subito che il numero dei personaggi, i riferimenti incrociati tra puntate, le citazioni letterarie e cinematografiche, la tela della trama narrativa, fanno pendere di molto la bilancia della complessità nei confronti del format cult di Matt Groening. Questo ragionamento vale anche per moltissime fiction che vediamo sul nostro schermo: se provassimo a tracciare su carta i legami sociali rilevanti che si instaurano tra i personaggi delle fiction, troveremmo la rete di ER tre volte più complessa di quella di Hazzard.

Discorso simile può essere fatto anche per i videogiochi, a patto che chi esprima un giudizio si cimenti direttamente con un qualsiasi videogame, e non si limiti a guardare da fuori qualcuno che smanetta con fare compulsivo su Joystick e tastiera. Se ci si mette in quest’ottica e ci si fa aiutare dalle neuroscienze, ci si accorge che la soddisfazione ed il divertimento di un giocatore non risiedono nell’acquisire sempre maggiore abilità manuale, nella capacità di schiacciare sempre più velocemente combinazioni di tasti. Giocare ad un videogame è invece è una figata perché si scopre man mano un mondo inventato, perché se ne scoprono le regole, le possibilità, i più remoti anfratti. Giocare ad un videogame vuol dire sviluppare la propria capacità di “telescoping”, un termine che indica “l’abilità di concentrarsi in problemi immediati mantenendo contemporaneamente una visione a lunga distanza”. È questa un’abilità che molti avranno sviluppato, per dirne una, giocando a “Tetris”, nel quale la costruzione di linee orizzontali deve avvenire prendendo in considerazione tutto il contesto –il pezzo successivo, la velocità con la quale questo viene giù- e non solo la singola linea.

Ma i videogiochi ci rendono aiutano anche per un’altra ragione: allenano la nostra mente ad un fruttuoso processo in quattro parti: “indaga, ipotizza, re-indaga, ripensa”, un processo che nei giochi più complessi (come molti di quelli campioni di vendite oggi in tutto il mondo), avviene migliaia e migliaia di volte, seguendo fili narrativi e logici sempre più complessi, aumentando le variabili da considerare: “in altre parole: quando i giocatori interagiscono con queste ambientazioni, imparano il procedimento di base del metodo scientifico” – dice Johnson.

Questo processo mentale, a noi ricorda molto il “Hands-on Imperative” degli hacker, ovvero il desiderio, la voglia, da parte degli informatici, di mettere le mani “dentro” un pc, una rete, un linguaggio di programmazione per imparare l’informatica facendola (learning by doing) e usandola (learning by using). Anche in questo caso, “mettendo le mani sopra” il videogame, si impara: si analizza, si decide, ci si organizza, si fanno strategie. È questa una nuova modalità di approccio all’apprendimento, che per l’informatica è risultata di assoluta efficacia.

Discorso analogo va fatto anche per i vari reality. Johnson ci dice giustamente che l’attenzione magnetica di milioni e milioni di cittadini che seguono i reality, non deriva dal processo di pubblica umiliazione che subiscono i partecipanti al programma. Non guardiamo insomma il concorrente di turno per godere della sua idiozia, o della sua ignoranza. Esploriamo invece il reality di turno come faremmo con un videogioco (anche Aldo Grasso ha sposato questa tesi), cerchiamo di ricostruire man mano, col passare dei giorni, le relazioni che si instaurano tra i vari concorrenti, le reti di alleanze e complicità, ma anche le regole stesse del gioco che vengono appositamente tenute celate dagli autori (come l’ingresso di nuovi concorrenti, le prove da affrontare, ecc.). Ed è per questo stesso motivo che più interessanti – e secondo Johnson più utili e formativi- risultano quei reality – come “Survivor” o “l’isola dei famosi”- nei quali i partecipanti vengono calati in situazioni inusuali e sono perciò costretti, in qualche maniera, a reinventare sé stessi.

Parlando anche di cinema, di trame sempre più complesse, di film predisposti ad essere rivisti più e più volte (con relativo allungamento delle proiezioni – vedi le 10 ore del “Signore degli Anelli”) Johnson arriva finalmente ad Internet. Conosciamo già la virtù della “rete di reti”, se però accostiamo Internet ai discorsi fatti finora, scopriamo come questo sia diventato un enorme serbatoio per discutere e ragionare sulle forme d’intrattenimento illustrate finora. Molti di noi probabilmente hanno esperienza di quante informazioni possano trovarsi in rete sugli episodi di “Dawson’s Creek”, su ogni singolo paio di scarpe indossato da Kerry in “Sex and the City”, ma anche quanti manuali di milioni di parole e commenti, ricostruiscano da capo i mondi surreali dei videogiochi. Internet, insomma, diventato uno dei primari punti di accesso ad informazioni di qualsiasi tipo, ha anche dilatato il tempo di fruizione di format sempre più complessi, e questo anche fuori dalla TV. Se si perde un episodio di una serie intricatissima – perciò interessante- in rete si potranno recuperare le informazioni perse, si potranno avere chiarimenti da parte di altri appassionati, i più smaliziati saranno in grado di scaricarsi l’intera puntata e l’intero ciclo di puntate.

Se la complessità è stimolante per la nostra mente e ci tiene incollati allo schermo, ecco che Internet ci fornisce uno strumento basilare per il funzionamento di questo meccanismo.

Chiudiamo dicendo, naturalmente, di leggervi questo libro – non becchiamo una lira, però. Ci teniamo a sottolineare l’importanza che per noi ricoprono queste questioni. Rivendicare legittimità per la cultura popolare è a nostro avviso anche un modo per esprimere la propria curiosità nei confronti del mondo e degli individui, una maniera utile per impostare qualsiasi discorso si riferisca alla società odierna – inguaribilmente di massa.

A nostro avviso non si corre il rischio di mettere in discussione altri formati basilari per l’apprendimento e l’intelligenza (a partire dal quello cartaceo – d’altronde è di un libro che qua parliamo). Si palesa piuttosto la necessità di rompere la polverosa teca di cristallo che protegge la cultura con la C maiuscola da qualsiasi influenza attuale, innovativa. Questa sì, a volte, rischia di avere un insopportabile sapore di snobismo noioso e tutto conservatore.

***

Su licenza:
http://creativecommons.org/licenses/by/2.0/it/

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