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«Accusato di libertà»
16.03.2006
Luigi Grechi: costantemente accusato di libertà. Di Luca Bartolini / La Brigata Lolli

Di Luigi Grechi sappiamo (quasi) tutto. O almeno dovremmo saperlo. Da un lato perché sono più di 30 anni che è attivo nell'ambito della musica d'autore italiana, dall'altra perché ha scritto alcune bellissime canzoni come "Il bandito e il campione", tanto per non citare che la più famosa, o ne ha tradotte di altrettante famose, come "La coperta indiana" da Tom Russel o "Souvenir" da John Prine e dall'altra perché ha avviato alla musica leggera quel "pezzo grosso" di suo fratello, ossia Francesco De Gregori. Ma un'intervista con Grechi è tutta da godere...
Il tuo primo lavoro si intitola “Accusato di libertà”. A leggere la tua biografia sembra proprio che tu abbia fatto il possibile per far si che questa accusa continuasse a pendere sul tuo capo fino ad adesso…

"Ma, in realtà io mi sono mosso sempre a caso. Non avevo certo un piano che intendevo attuare. Uno è fatto come è fatto quindi…"
E’ stato inevitabile..

"Si, si esattamente"

Da “Accusato di libertà” a “Pastore di nuvole”…

“Accusato di libertà” era anche il titolo di un brano del mio primo album che in termini non espliciti ma in termini poetici diciamo, parlava di un desaparecido in Cile. All’epoca quando feci il disco c’era stato il golpe di Pinochet e avevo degli articoli in cui risultava che c’erano persone che sparivano nel nulla senza essere direttamente impegnati nella politica, ma magari solo perché erano ubriaconi, marginali, o avevano amicizie sbagliate o avevano nell’agenda numeri di telefono sbagliati. Quindi anche senza essere direttamente impegnati nella politica, sono finiti lo stesso nelle grinfie della repressione. A questo si riferiva “Accusato di libertà”, non proprio direttamente a me che allora non ero accusato di niente, neanche dopo mi hanno accusato di niente. Però “Accusato di libertà” è senz’altro una frase che può stare bene, sempre di più, a molti di noi oggi.

E invece “Pastore di nuvole”?

“Pastore di nuvole” diciamo è la figura di artista generica. Il pastore di nuvole è chi appunto cerca di radunare delle nuvole che invece sono impalpabili, quindi sfuggenti come appunto parole, segni, colori, suoni.

Nella canzone “Il mio cappotto” ti chiedevi se “libertà è pigliare un altro treno e fare il pendolare per l’eternità…”?

Ma li mi chiedevo appunto se libertà era davvero quello. Sono tutte domande: “ma è libertà davvero versanti ancora vino…”? E alla conclusione dicevo che la “libertà più vera è rifiutare l’avventura e dire a tutti quanti io rimango qua…”. Quindi la libertà alla fine, se uno analizza il testo, è l’impegno, è lo stare dove uno sta, dove uno può concludere di più.

Sul tuo sito c’è una foto dove la didascalia recita: “Luigi mentre legge Kerouac”. Si può dire che il tema dell’ ”on the road” sia una delle parti centrali della tua poetica..

Assolutamente si, ma appunto in me c’è sempre una tensione tra la voce della coscienza che mi dice di restare dove stai e di essere concreto e tra la voce della poesia e della fantasia o di un altro impulso che ti porta a girovagare e a vagabondare. Ecco diciamo che la mia vita è tutta fra il grillo parlante che mi dice: “no, che cazzo fai? Stai qui, ci sono cose a cui pensare..” e l’altra voce che mi dice molla tutto e vai via. Io sono in sintonia con tutto quello che ha scritto Bruce Chatwin, che non aveva questa bipolarità come me, lui era proprio tutto per l’andare. Parlava addirittura di quello che in francese si chiama orròr dè la residènce, l’orrore della residenza. E diceva, una cosa su cui sono d’accordo anch’io, che l’essere umano è portato naturalmente al nomadismo e che tutti i guai vengono da chi si ferma in un posto e comincia a dire :”questo è mio”, a recintarlo, eccetera. Cioè la natura dell’uomo è nomade e poi la società lo fa diventare stanziale e da li ci sono tutti i conflitti e anche le nostre pazzie che vengono poi esorcizzate in tanti modi. Ad esempio mi piace pensare che il ballo dei Dervisci che è un continuo girare, non sia altro che proporre un percorso da fermi, un movimento stando fermi, quindi non potendo essere più nomadi ci si sfoga girando su stessi.

Cantavi in “Sotto una bandiera” di un “teschio sotto una bandiera…” “…morto a primavera per eseguire gli ordini di un re…”

Quelli sono versi di Francesco. Quella canzone è una specie di rifacimento in italiano di una canzone popolare siciliana “Vitti na crozza”, cioè “Ho visto un teschio”. Recitava così: “Vitti na crozza sotto a lu cannuni..”, quindi vidi un teschio e io pensai, sotto un cannone, quindi mi veniva in mente un quadro di guerra e la canzone fu tradotta, o meglio, rifatta da Francesco in termini antimilitaristi, pacifisti. In realtà ho scoperto molti anni dopo che “cannuni” in dialetto siciliano voleva dire il torrione. E quindi la canzone parlava della testa di un brigante appesa sul torrione per far vedere alla gente che il brigante era stato giustiziato.
Comunque è una canzone che per come la cantavo io e per come la pensavo io era una canzone assolutamente pacifista, contro la guerra e contro chi ti ci manda.

Cosa aveva di speciale il Folkstudio? Era il periodo che ha creato il Folkstudio o una incredibile concentrazione di talenti o tutte e due le cose?

Come al solito sono tutte e due le cose. Se fossimo stati in un altro periodo il Folkstudio avrebbe chiuso subito. Il Folkstudio cominciò nel ’65 con già i primi fermenti nell’aria di quello che sarebbe stato il ’68: inoltre eravamo in una Roma molto più internazionale di adesso, internazionale non nel senso che ci venivano i ricchi di tutto il mondo, ma ci venivano i ragazzi e i giovani artisti da tutto il mondo. Sia quelli che scappavano dai governi militari del Sud America, sia gli americani che scappavano bruciando la cartina di precetto per andare in Vietnam, tanti artisti dal Medio Oriente, dall’Iran dove allora c’era lo Scia di Persia che perseguitava tutti quanti i libertari e gli artisti. Quindi c’era una gioventù di artisti e di giovani intellettuali a Roma e questo portava ad avere un’atmosfera che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare. Piazza Navona tutte le notti era piena come un autobus di ragazzi e ragazze da tutto il mondo. Va da se che il divertimento e l’eccitazione erano al massimo.

Passò anche Bob Dylan…

Si, passò anche Bob Dylan al Folkstudio ma nessuno ancora lo conosceva. Anzi il nome Bob Dylan non so neanche se esistesse, lui venne perché pare che accompagnasse un tour di Pete Siegers che era un famoso cantante di folk americano e attivista politico. Poi dopo se andò a Spoleto a trovare la sua fidanzata o la sua innamorata che stava li all’università per stranieri. Quindi passò da Roma e suonò al Folkstudio ma diciamo in incognito, come uno dei tanti che si esibivano li.

Stasera (22 febbraio), sei qui al Matatu a Milano. Nei prossimi giorni suonerai il 24/02/06 a Varago di Maserada [Tv], il 25/02/06 a Paderno di Ponzano [Tv], il 02/03/06 a Concordia Sagittaria [Ve] e il 03/03/06 a Sutrio [UD] . Continui ad essere più attratto dalla dimensione live piuttosto che dall’incisione su disco?

Si, assolutamente si. Fare i dischi è una cosa che serve, sia per fissare un momento della propria carriera, le sonorità e tutto il resto…

E’ una foto che sta stretta?

Ecco è una foto. Ne ho fatti tanti e ogni disco pensavo che qualcosa cambiasse mentre non cambiava niente. Che il disco fosse migliore o peggiore andavano tutti nella stessa maniera. Quindi è piacevole suonare con la tua band, certo incidere si, ma specialmente oggi sto aspettando a fare un disco nuovo anche per vedere che aria tira. I sistemi di distribuzione stanno cambiando, ci sono ormai anche altri modi per comunicare le proprie canzoni; sto aspettando un po’ di vedere cosa succede. Ma trovo naturale che la prima cosa sia suonare dal vivo, il disco è una cosa successiva.

Cambia l’ispirazione con gli anni? Scrivi come scrivevi trent’anni fa o è diverso?

Bhè spero, dovrebbe essere diverso perché uno cambia crescendo. Diciamo che in un certo senso è più difficile scrivere perché a vent’anni uno ha delle idee e può scrivere con la fantasia a briglia sciolta, poi gli anni passano e uno le idee le ha lo stesso ma vede anche la concretezza della realtà. In pratica se ne sa di più e allora c’è meno…

Spontaneità?

No forse alla fine ce n’è di più, solo che a vent’anni potevo anche sparare cazzate perché le avevo lette su un libro o su un giornaletto invece adesso devo stare molto più attento a come lo dico perché io cerco di essere sincero quindi essere sinceri e sapere che cosa stai facendo, che cosa stai dicendo e a chi lo dici è un lavoro più complicato. Diciamo c’è meno slancio, ecco.

Tu conoscevi bene Fabrizio De Andrè; attualmente non passa giorno che non si apra un giornale che magari non c’entra niente con la musica e si legge un giornalista o un opinionista che non c’entra niente che cita in qualche modo, spesso a vanvera, qualche canzone di De Andrè, o cita il verso di una delle più famose. Non penso gli sarebbe piaciuto, anche perché è forte il rischio dell’omologazione…

E’ difficile dire qualcosa perché se lui ci fosse non ci sarebbe tutto questo e ci sarebbe lui a cantare, quindi non lo so. Ecco si può dire che se fosse morto il suo De Andrè non gli piacerebbe tutto questo. Però sai, alla fine io sono un po’irritato dal fatto che tutta l’Italia è coperta di tributi a Fabrizio De Andrè e tutti fanno le canzoni di De Andrè; quelle facili. Anche perché lui ha avuto la maledizione e la fortuna di scrivere canzoni “facili”, non facili nel senso di facilone, ma facili da riproporre con voce e chitarra; quindi questo permette a chiunque sappia suonare un po’la chitarra di poter fare dignitosissimamente i pezzi di De Andrè però tutti, forse anche per una forma di rispetto, li fanno nella stessa maniera. Sono pochi quelli che interpretano e stravolgono le cose di De Andrè.
Ho avuto un brivido la settimana scorsa quando il mio meccanico che è un ragazzo giovane a cui piace suonare, mi ha regalato un suo cd di tributo a De Andrè in cui lui cantava dieci pezzi di De Andrè, tutti con la voce di De Andrè, fatti bene voce e chitarra e io ho mi son detto: “eccone un altro”. Queste cose inflazionano un po’ il personaggio, d’altra parte è anche bello che quello che ha fatto De Andrè sia praticamente l’unica cosa che viene riproposta con questa abbondanza. Quindi da una parte è un onore per De Andrè, per la sua memoria; dall’altra io come ascoltatore e come fruitore di concerti ne ho le palle piene (risate…).

Che concerto ci aspetta stasera? Sei da solo o ti accompagna la tua “Bandaccia”?

No sono da solo; purtroppo la Bandaccia costa, quattro persone da portare in giro, non riesco ancora a portarle a Milano. Ho portato la Bandaccia solo per la presentazione di “Pastore di nuvole” alla Feltrinelli in piazza Piemonte e basta.
Guardando la tua carriera non si potrà mai dire che hai cercato il consenso da parte del pubblico con scelte ruffiane. Avere un pubblico di nicchia e di appassionati di canzone d’autore immagino sia davvero gratificante, però non ti è mai mancato il grande pubblico, il fatto che le tue canzoni magari fossero più conosciute, passassero più spesso alla radio?

Si guarda, il fatto che non passino in radio per nulla, quello mi fa abbastanza incazzare, perché quello è essenzialmente colpa dei miei promoter passati, presenti e futuri…Poi non lo, ci sono molte canzoni che oggi non sarebbero radiofoniche almeno nella loro versione incisa su disco, però l’ultimo disco (“Pastore di nuvole”) era radiofonico, era stato fatto proprio per avere un suono che funzionasse per radio. Chi ha fatto la promozione di quel disco…insomma non ho avuto nessun ritorno dalla promozione dei miei dischi. Diciamo che solo il fatto che fossero usciti mi può aver aiutato ma non è stato fatto molto per farli conoscere, questo mi irrita.
Per quanto riguarda il fatto di non avere il grande pubblico...ma sai, mi è capitato anche sia come tour fatto insieme a Francesco, sia in altre situazioni come il tour fatto con i poeti della beat generation di suonare davanti a migliaia di persone. Sicuramente un vasto pubblico gratifica, ma gratifica altrettanto anche un pubblico di appassionati, di nicchia; non mi interessano i numeri. Certo al di la si tutto questo, siccome anch’io sono un essere umano, quello che mi secca è di continuare a non sentirmi economicamente tranquillo perché non guadagno abbastanza. Non è che io sia avido però vorrei poter pensare solo alla musica senza avere preoccupazioni economiche; quelle invece, come tutti noi, continuo ad avercele.

Qual è la musica che ti ha influenzato all’inizio e quella che ascolti adesso?

Adesso ti dico subito che non ascolto quasi niente sia perché vivo in campagna quindi negozi di dischi li frequento poco, sia perché non c’è niente che mi dia brividi o grandi emozioni rispetto a tutto quello che ho sentito prima. Quanto ai generi musicali, quando ero ragazzo, ti parlo degli anni ’50, nasceva il rock and roll quindi ascoltavo quello. Poi il rock and roll di allora che sarebbe il rock a billy, in realtà era country, oggi lo chiameremmo country. Jonnhy Cash, Jerry Lee Lewis, Elvis, negli anni ’50 facevano un country rock. Poi dopo sono andato un po’ ad approfondire fino alle radici del rock and roll e del rock a billy dove c’erano i grandi del country, Hank Williams che era il più commerciale, o Woody Gutrie che era l’artista di nicchia. Quindi sono stato influenzato anche da tutto quello che ho ascoltato e che già non era più attuale negli anni ’50 ma che fa parte della storia della musica americana. Quindi confesso mi piace la musica americana perché è una musica un po’di fusione tra musica latina, musica scozzese, irlandese e musica africana. Si sono mischiate nel country, nel jazz e nel blues; per questo mi piace la musica americana, perché è una specie di enciclopedia di tutta la musica del pianeta.

Abbiano già parlato di Chatwin e di Kerouac, le tue letture quali sono?

Naturalmente non puoi seguire tutta la musica di un paese se non ne conosci un po’anche la letteratura, l’immagine, il cinema, il fumetto. Gli autori americani sono sempre stati i miei preferiti, pur avendone lette delle opere, conosco molto meno la letteratura tedesca piuttosto che quella inglese e americana. Anche perché poi all’università ho studiato letteratura inglese e americana. I miei preferiti in assoluto sono i classici, Melville, Edgar Allan Poe…poi le cose più recenti che ho letto sono uno scrittore americano che si chiama Corman Mc Carthy che ha scritto dei romanzi western. Ma non western come lo potremmo immaginare, comunque ambientati tra Texas e Messico negli anni ’50 che sono molto belli, non sono avventure, sono quasi dei romanzi filosofici. Diciamo che è una scrittura che mi ha affascinato subito, proprio come stile e come storie.

Ci racconti qualcosa riguardo alla tua partecipazione al festival itinerante con i poeti della beat generation? Tu hai anche accompagnato Lawrence Ferlinghetti con la chitarra…
Si era lui che voleva che io lo accompagnassi. Poi quando se ne andò mi chiese: “Ma conosci mica qualcuno a San Francisco che possa suonare come te…” . Gli dissi che ce n’erano diecimila anche più bravi di me, a lui per qualche motivo piaceva quello che facevo io che erano poi due scemenze; io non sono un chitarrista, io suonavo due cose senza cantare e a lui piaceva così.
Il tour è stata una cosa molto bella perché girando tutta l’Italia insieme in pullman era una gabbia di matti, un circo.

Il tuo sito si apre con in home page una frase di Herman Hesse tratta dal libro “L’ultima estate di Klingsor”: “ Luigi il crudele era caduto dal cielo, tutto d’un tratto egli era la…il girovago, l’imprevedibile che aveva per dimora la ferrovia e per atelier lo zaino…”.

Diciamo che sono curiose quelle righe perché sembra un po’il mio ritratto, mi sono riconosciuto in quel personaggio, in quelle righe.

D-La tua ultima uscita, dopo “Pastore di Nuvole” è “Campione senza valore” un mini cd che contiene 4 tuoi pezzi storici, "Dublino","Tutta la verità su Manuela","Pozzo numero nove","Il mio cappotto"; rifatti accompagnato dalla “Bandaccia”. [La Bandaccia è composta da Dajani Sciapichetti, Alessandro Valle e Franz Mayer]

Si è appunto un disco di quattro brani che, che poi dopo diventerà un’antologia di 12 pezzi vecchi rifatti.

Come è cambiato il tuo modo di registrare e di affrontare la registrazione di un disco? Se è cambiato…

Oggi con il digitale è cambiato moltissimo, non c’è più bisogno di andare in studi costosi, quindi registriamo dal vivo tutti e quattro insieme e se viene bene, bene, sennò si rifà. Senza stare a fare grandi operazioni di taglia e cuci o di maquillage.

Il progetto “Tre voci e tre chitarre” che ti vedeva sul palco con Claudio Lolli e Goran Kuzminac, si è interrotto?

Si è fermato perché ci sono delle difficoltà. D’altra parte era soltanto un’idea che ha funzionato per un po’. Tutto sommato forse oggi come oggi si preferisce avere Lolli, Grechi e Kuzminac, uno per volta. Anche perché il mio tentativo di fare qualcosa insieme, non ha funzionato, non c’era disponibilità. Nessuno ha detto: “no non voglio”, però nessuno voleva stare a provare, dicevano: “ma no le facciamo qui”; invece secondo me non c’è niente di più spontaneo di una cosa che è stata organizzata.

Ci racconti dell’origine de “Il bandito e il campione”, come è nata l’idea di quella canzone?

Mi raccontò quella storia un mio amico che si chiamava Giancarlo Gabella ed era uno scrittore, un regista teatrale, autore cinematografico di un film indipendente; ed era un mio caro amico che era di Novi Ligure come appunto Girardengo e come il bandito. Quindi lui mi raccontò questa leggenda di paese, quello che diceva la gente del paese: quindi c’era chi diceva che Girardengo aveva tradito il bandito perché così i francesi gli avrebbero fatto vincere perché in Francia arrivava sempre secondo…insomma tutte le leggende e le chiacchiere di paese che c’erano. Mi è sembrata una bellissima storia da raccontare in una canzone questa ammirazione che aveva il bandito per il campione, perché erano quasi coetanei quindi da ragazzetti correvano in bicicletta per gioco insieme, per lo meno così ci immaginiamo. C’era questa grande ammirazione, poi la gente diceva che il bandito travestito andava a vedere le gare di Girardengo. Quindi io sulla leggenda, ci ho messo dieci anni da quando sentii la storia, ci ho costruito “Il bandito e il campione”. Dopo di che uscirono libri articoli cose per cui feci anch’io delle ricerche, parli con Fossati che era il decano dei giornalisti di ciclismo italiani e che sapeva un sacco di storie su questa faccenda che meriterebbe di essere raccontata in un film e anche un sequel. Ci sono storie che cominciano da prima ancora della fondazione della banda del bandito Sante Pollastri, che è la storia di questo Renzo Novatore che era l’ispiratore anarchico di Sante Pollastri. Questo Renzo Novatore che era un teorico dell’anarchismo, nel 1922 quando il fascismo prese il potere, le camice nere vennero ad assaltare casa sua per farlo fuori e lui invece scappò via a colpi di bombe a mano e pistolettate e insieme a Pollastri formarono la banda. Alla fine oggi la storia è ancora più complessa e più ricca perché a questo punto sembrerebbe veramente che la banda pollastri fosse un vero e proprio gruppo di resistenza politica al fascismo. Comunque le rapine che faceva il bandito erano fatte in bicicletta con vari stratagemmi, addirittura in Francia salirono in treno a metà percorso con le biciclette, insomma tutti maneggi con biciclette per arrivare in Francia; insomma tutti i colpi venivano fatti in bicicletta. E dopo i colpi veniva inseguito dai Carabinieri in bicicletta anche loro, perché all’epoca non è che ci fossero tante macchine, Pollastri aveva una pistola da tiro di precisione che si portava dietro che usava per spegnere i fanali della strada in modo che nell’oscurità si nascondeva in qualche campo e non lo trovavano più. Questa è tutta quanta la storia e me la raccontò Giancarlo Gabella. Poi sono usciti dei libri e la storia ha una parte precedente e una successiva perché anche in carcere ci furono molte avventure quando dopo l’8 settembre erano scappati tutti dal penitenziario, i secondini, le guardie e non c’era più da mangiare per i detenuti che fecerono una rivolta e Pollastri fece da tramite tra i rivoltosi e le autorità militari anglo-americane, riuscì a sistemare le cose per cui dopo poco fu graziato e tornò al paese. Li con una bicicletta con sopra delle cassettine contenenti cose piccole e povere come maglioni da bambino, calzini; che vendeva di casa in casa.
Sposò una ragazza madre per dargli una sistemazione e morì tranquillamente, sia lui che Girardengo. E comunque il bandito era benvoluto dalla gente perché tranne che a Poliziotti e Carabinieri, non aveva mai fatto mai male a nessuno; era una persona molto gentile, educata, silenziosa (ride…). C’è sempre stata del resto una certa simpatia tra certi fuorilegge e la gente.

“Il bandito e il campione” è la tua canzone più famosa, è anche la tua preferita?

No, mi piace certo, l’ho individuata subito come canzone che poteva avere successo infatti poi ce l’ha avuto quando l’ha cantata Francesco ma non è la mia preferita. E’ una delle mie preferite, mi piace, la faccio volentieri sempre, è una bella storia ma bisognerebbe fare un disco intero su questa vicenda. C’è un’altra canzone che ho fatto ed è ancora inedita che è “Il ritorno del bandito”, cioè il ritorno del bandito a casa.

La fai stasera?

No, il testo c’è tutto ma ancora devo ancora migliorare delle cose nella parte musicale. E quella non sarà di successo, perché non c’è quell’inciso…”Il bandito e il campione” ha avuto successo secondo me per motivi abbastanza banali. Il “Vai Girardengo” è un grido da stadio, da sport, che è entrato subito nelle orecchie della gente, è tutto li il trucco. Se non ci fosse stato il ritornello che diceva “Vai Girardengo” la canzone sarebbe stata molto più sotto tono. Non l’ho fatto apposta però mi è venuta così…(ride…)

Nella registrazione del 33 giri “Luigi Grechi” ti venne censurata una canzone: “Seveso Blues”, l’hai più suonata?

Mi successe dieci anni dopo un giorno in cui mi trovavo per caso negli studi di Rai 3 a Milano per il notiziario regionale. C’ero per tutti altri motivi mi sembra insieme a Demetrio Stratos per fare qualcosa e il giornalista che era li, saputo di corsa che io ero l’autore “Seveso Blues” siccome era il decennale del disastro di Seveso, mi rimediò una chitarraccia in Rai da qualche parte, visto che io non avevo dietro una chitarra, e mi fece fare dal vivo “Seveso Blues” su Rai 3.

Senza censura stavolta…

No, la censura c’era solo da parte della casa discografica di Mina [la PDU]. Comunque non è che fosse una canzone bellissima ma allora mi sembrava importante farla, adesso la scriverei in un altro modo.

Se il tuo cappotto, trent’anni fa, era stanco di “fare da bandiera a una vita spesa qua e la”, adesso…

Adesso è esausto…(risate…)


Ringrazio ancora una volta Luigi Grechi per la squisita disponibilità e per la voglia di raccontarsi

Fonte: http://www.bielle.org/2006/Interviste/Grechi_int.htm

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