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I veri nemici del capitalismo
24.06.2003

Molti accusano il capitalismo per la povertà e il sottosviluppo presenti al mondo. Non siamo d’accordo. Il sistema di libero mercato, quando messo nelle condizioni di funzionare correttamente, è il miglior meccanismo per ridurre la povertà e promuovere la crescita economica.

Le regole della competizione

Ma per funzionare correttamente, questo sistema necessita di una struttura di leggi e di regole. Il problema è che nessuno ha gli incentivi giusti per sostenere politicamente questa struttura. Tutti beneficiano di mercati competitivi, ma nessuno trae profitti dal renderli o mantenerli tali. Ironia vuole che chi ha maggiormente da perdere dal promuovere il libero mercato siano proprio i capitalisti. Un mercato veramente libero crea competizione, che mina la posizione delle imprese esistenti, costringendole a riguadagnarla ogni giorno.

Un esempio? Dopo la crisi messicana del 1994, la Banca Mondiale decise di intervenire per aiutare il governo a migliorare la struttura finanziaria del Paese. Mancava una delle istituzioni fondamentali, un registro ufficiale dei crediti, dove le garanzie reali sui prestiti potessero essere trascritte cosicché qualsiasi potenziale creditore ne fosse messo a conoscenza. Nel creare questo registro la Banca Mondiale incontrò forte opposizione dalle banche locali. Perché? Le banche esistenti avevano già sufficiente potere per riuscire a ottenere queste informazioni anche senza un registro ufficiale. Quindi, non solo non traevano nessun beneficio diretto da un registro ufficiale, ma anzi ne ricevevano un danno indiretto: un registro ufficiale, diffondendo le informazioni, permetteva a nuovi creditori di competere ad armi pari, minando così il vantaggio competitivo delle banche esistenti.

In altre parole, per difendere l’interesse di pochi, l’accesso al credito di molte imprese e individui veniva ristretto.

Troppa influenza delle grandi imprese

Non è un caso isolato. In tutto il mondo, grandi imprese (e istituzioni finanziarie) esercitano una forte influenza sulla politica economica. Spesso (ma non sempre) non sono interessate a espandere l’accesso al mercato, perché questo aumenta la competizione. Non deve sorprendere quindi che l’interesse del mercato non venga mai opportunamente difeso e che in tutto il mondo i poveri percepiscano il capitalismo come ingiusto, senza capire che la loro esperienza si riferisce a una versione corrotta del capitalismo, non a quello che dovrebbe e potrebbe essere.

Non è una novità che le élite influenzino troppo la politica economica. Anzi, è uno dei pochi punti su cui gli economisti di Chicago come George Stigler si trovano d’accordo con Karl Marx. Ma i rimedi che vengono proposti sono sbagliati. Sbaglia la Sinistra nel sostenere che il mercato debba essere rimpiazzato dallo Stato, perché questo non farebbe che perpetuare il controllo da parte di una ristretta élite. E sbaglia la Destra nel sostenere che la soluzione è eliminare qualsiasi influenza dello Stato sull’economia.

Se non ci fosse nessuna norma di sicurezza sui voli e nessuna autorità che la controlla, chi vorrebbe viaggiare con una nuova compagnia aerea? Tutti preferirebbero una compagnia già affermata, con una reputazione. In altre parole, nell’industria del trasporto aereo la completa assenza di norme di sicurezza favorisce le imprese già esistenti, rendendo impossibile l’entrata di nuove imprese, e quindi uccidendo la competizione. Il mancato intervento dello Stato, a volte, può danneggiare la competizione più di quanto lo possa fare un suo intervento.

Elite e mercati

In questo sta la tensione fondamentale del capitalismo: come può un governo controllato da forti interessi economici costruire la struttura necessaria perché il mercato funzioni? Nessuna riforma del finanziamento ai partiti potrà mai eliminare il potere politico del denaro. Per salvare il capitalismo, la soluzione è di trasformare le élite da nemiche dei mercati a loro sostenitrici, fare vedere loro che le opportunità offerte da un mercato competitivo più che compensano il danno arrecato dall’accresciuta competizione.

Per quanto sembri difficile da realizzare, è quello che è successo negli ultimi tre decenni. Paesi così diversi come Francia e Germania, Corea e India hanno abbracciato il mercato e cercato di creare la struttura necessaria perché possa prosperare. Perché? È difficile immaginare che improvvisamente i politici siano diventati più attenti all’interesse generale, o che il denaro abbia perso il suo peso in politica.

La verità è che l’apertura dei mercati internazionali dei beni e dei capitali ha allineato l’interesse delle élite con quello del mercato. Quando la competizione viene da una diversa giurisdizione che le élite locali non possono influenzare, non c’è nessun vantaggio nel cercare di soffocarla distorcendo il mercato interno. Al contrario, sotto la minaccia della competizione internazionale, le imprese vogliono una struttura efficiente che permetta di competere ad armi pari. Il libero scambio di beni e capitali è il meccanismo più importante per promuovere mercati più efficienti e più competitivi.

In questo campo, il movimento antiglobalizzazione sbaglia completamente. Piuttosto che renderci schiavi delle multinazionali, la globalizzazione ci libera dalla schiavitù delle élite locali.

Nobili cause e sussidi a imprenditori inefficienti

Il secondo meccanismo per vincere la resistenza delle élite al libero mercato è di impedire che diventino troppo inefficienti. Una seria politica antitrust va in questa direzione, così come uno spostamento parziale del peso delle imposte dal reddito alla proprietà. Il sistema di tassazione oggi prevalente sussidia i produttori inefficienti, che non producono molto reddito, ma derivano benefici non monetari (e non tassati) dallo loro posizione. Una tassa sulla proprietà sarebbe invece neutrale e forzerebbe i produttori inefficienti a vendere le loro attività a quelli più efficienti.

Molto spesso i sussidi a produttori inefficienti sono dissimulati dietro nobili cause.

Quando la Fiat chiede sussidi allo Stato, usa il potenziale danno inflitto ai lavoratori come scusa per ridurre il costo che i suoi azionisti devono pagare per aver sopportato troppo a lungo un management non all’altezza della situazione. Questo non succede solo in Italia: negli Stati Uniti i produttori di acciaio hanno spedito 50mila lavoratori a Washington per ottenere protezioni doganali.

Ma i lavoratori possono essere usati come scudi umani degli interessi aziendali solo se non hanno una protezione adeguata. Se invece esiste un adeguato sussidio alla disoccupazione, la legittimità di sussidi alle aziende, o di dazi doganali per difendere i lavoratori, svanisce .

Il principio fondamentale del libero mercato è che le imprese inefficienti devono fallire, non che i lavoratori devono soffrire. Ma per permettere alle imprese di fallire abbiamo bisogno di un sistema che protegga i lavoratori, altrimenti la resistenza politica alla "distruzione creatrice" del mercato è troppo forte.

Assicurare le persone, non le imprese, è il terzo pilastro di una politica volta a creare consenso a favore del libero mercato.

Ma in democrazia la forza più importante per assicurare che le regole siano nell’interesse della collettività è la consapevolezza. È l’interesse di ciascuno nel libero mercato e la conoscenza di quello che può andare storto, che può tenere sotto controllo gli interessi costituiti. Ed è per rafforzare questa consapevolezza che abbiamo scritto il libro: "Salvare il capitalismo dei capitalisti".

di Raghuram G. Rajan e Luigi Zingales

R. Raghuram e L.Zingales sono gli autori del libro "Salvare il Capitalismo dai Capitalisti" di prossima pubblicazione per i tipi dell'Einaudi. Il libro sarà presentato domani 25 giugno presso l'Università Luigi Bocconi di Milano.

 

da www.lavoce.info

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