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Un patriottismo non proprio economico
26.03.2006
Daniel Gros / LaVoce.info.

Il più delle volte i politici europei si fanno concorrenza l’un l’altro per attrarre capitali stranieri offrendo incentivi di ogni tipo (tasse più basse o migliori infrastrutture, per esempio). E la competizione è particolarmente intensa quando si tratta di investimenti diretti dall’estero.

Gli investimenti dall’estero piacciono. Ma non sempre

Gli investimenti diretti dall’estero sono molto apprezzati perché sono considerati il modo migliore per accedere alla tecnologia e al know how stranieri. Ma l’altra faccia della medaglia è che comportano un controllo straniero sulle imprese. Se il primo aspetto è visto con favore, i politici tendono a sorvolare sul fatto che un investimento diretto dall’estero consiste nell’acquisizione di un’azienda nazionale. È un reticenza che diventa ostilità quando una società straniera minaccia di scalare un’azienda nazionale ritenuta strategica (il che spesso significa un’azienda con stretti legami politici). In questo caso, il capitale straniero non è più benaccetto.
La recente battaglia su Enel-Suez-Gas de France ha riportato ancora una volta in primo piano l’ambivalenza dei politici. In Francia, il Governo sta cercando di mantenere in mani francesi il controllo della società energetica, ma allo stesso tempo utilizza l’argomento dell’alto livello di investimenti diretti dall’estero per negare le accuse di protezionismo. Molti altri paesi si comportano nello stesso modo, sebbene lo facciano generalmente con maggior discrezione. Come dovremmo giudicare un comportamento apparentemente contraddittorio?
Analizziamo i due aspetti del dilemma.

La difesa dei campioni nazionali

Gli interventi della politica nelle operazioni di fusione e acquisizione molto spesso portano ad assumere posizioni che non riflettono gli interessi nazionali: accade sia quando i politici intervengono per far rimanere "nazionale" un’impresa, sia quando difendono i tentativi di società nazionali di formare un impero. In generale, le acquisizioni tendono a far perdere valore alla società che lancia l’offerta, ma a incrementare il valore di quella che la subisce. E infatti il prezzo delle azioni della società italiana (Enel) che ha lanciato l’offerta per il controllo di Suez è calato dopo l’annuncio dell’operazione. Il ministro italiano dell’Economia (lo Stato italiano ha una partecipazione importante nell’Enel) dovrebbe perciò essere interessato a veder fallire l’operazione. (E viceversa per il ministro francese). Ma quando la questione arriva a un livello politico, le considerazioni economiche escono di scena.
È sufficiente sostenere che il "patriottismo economico" è in ascesa? In molti dei casi recenti i politici sembrano aver reagito al fatto che specifici mercati (e società), che loro per lungo tempo hanno creduto protetti, sono ora soggetti a concorrenza. Tuttavia, anche se i politici possono impedire qualche acquisizione nel breve periodo, resta sempre la minaccia di una possibile scalata futura. Perciò anche i campioni nazionali dovranno comportarsi come i loro concorrenti e i politici potranno fare ben poco per mantenere posti di lavoro o canali di investimento all’interno di determinati settori.
Invece di lamentarci della rinascita del protezionismo in Europa, dovremmo chiederci qual è l’aspetto più importante dell’attuale boom di acquisizioni transnazionali nell’Unione Europea: il fatto che si lanciano quelle offerte, spesso ostili, o il fatto che i politici cerchino disperatamente di proteggere i loro campioni nazionali?

In gara per gli Ide: la classifica

In tempi normali i Governi fanno a gare per attrarre più investimenti diretti dall’estero. E il più delle volte, ai ministri dell’Economia piace presentare classifiche dei paesi che ne ricevono di più.
Queste classifiche si basano sui dati principali del Fondo monetario internazionale (o su quelli equivalenti di Eurostat). Se si guarda allo stock di investimenti diretti dall’estero della fine del 2004 la Francia ne ha in effetti ricevuti più della Germania. Lo stock di investimenti diretti dall’estero ricevuti quell’anno dalla Francia rappresentava il 46 per cento del Pil contro il 25 per cento del Pil della Germania e solo il 13 per cento dell’Italia. Questi dati sembrano suggerire che gli investimenti diretti dall’estero sono alquanto importanti per l’economia francese. Tuttavia, il dato di stock è fortemente distorto da alcune grandi operazioni concluse durante il boom delle telecomunicazioni del 1999-2000.
Un quadro completamente diverso emerge se guardiamo a dati più recenti sui flussi di investimenti diretti dall’estero. Negli ultimi tre anni per i quali i dati sono disponibili (2002-2004), i flussi di Ide sono stati piuttosto modesti, circa il 2,3 per cento del Pil per la Francia e circa l’1 per cento per l’Italia e la Germania. Il quadro cambia ancora di più se osserviamo la componente "core" degli investimenti diretti dall’estero , cioè al capitale (equity).
L’equity dovrebbe essere considerato l’elemento chiave degli investimenti diretti dall’estero perché rappresenta la quota di capitale proprio che l’investitore straniero rischia. Tuttavia, le cifre delle statistiche ufficiali registrano il valore complessivo, lordo, dell’operazione, che invece, spesso contiene anche un importante elemento di finanziamento attraverso il debito (prestiti intersocietari, eccetera). Generalmente, l’obiettivo di un finanziamento attraverso debito è spostare i profitti e così risparmiare sulle tasse.
Se guardiamo agli investimenti diretti dall’estero in termini di flussi cross border di capitale, il quadro cambia considerevolmente. Misurati così, gli Ide sembrano essere marginali (meno del 2 per cento del Pil) e le posizioni di Francia e Germania si invertono (1,5 per cento del Pil per la Germania contro l’1,2 per cento della Francia).
Le classifiche degli investimenti diretti dall’estero andrebbero perciò utilizzate con molta cautela quando si vuole confrontare il successo o il fallimento di un paese nell’attrarre capitali stranieri. Stock e flussi ne danno spesso un’impressione diversa e i flussi sono molto variabili. Inoltre, la loro composizione (in termini di patrimonio contro debito) è altrettanto importante della cifra nel suo complesso. Ricevere un più ampio ammontare di Ide non è necessariamente un segno di successo o di apertura.
In conclusione, l’importanza complessiva attribuita agli investimenti diretti dall’estero è qualche volta esagerata, sia quando i politici si vantano di riceverne molti, sia quando cercano di respingerli perché minacciano il controllo nazionale su determinate imprese.
Da un punto di vista strettamente economico, non è necessariamente "patriottico" attrarre una quota maggiore di Ide, difendere un’impresa nazionale o sostenere la scalata a una società straniera da parte di un’impresa nazionale. Dopo tutto, sostenere sempre e comunque il management di una società nazionale (sia quando lancia un’offerta sia quando si difende da una ostile che proviene dall’estero) è un gioco a somma zero all’interno dell’Europa.

Fonte: http://www.lavoce.info/news/view.php?id=10&cms_pk=2077&from=index

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