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Lodo Schifani.......il Voltafaccia di Nando della Chiesa
24.06.2003

Lodo Schifani. Il voltafaccia
di Nando dalla Chiesa
Fulminea. La firma è giunta subito. Nessuno coltivava illusioni. Ci era stato detto e ripetuto, a volte in modo ovattato a volte in modo spazientito: il Quirinale vuole una approvazione celere e indolore della legge. Per questa e quest'altra ragione. Così la maggioranza ha votato velocemente per ordine del capo del governo e la minoranza ha votato velocemente per richiesta del capo dello Stato. Oltre ai poveri cocci di un irrinunciabile principio costituzionale portiamo dunque fuori da questa vicenda anche una ferita all'autonomia del parlamento. Dove l'opposizione ha avuto un sussulto di dignità al momento finale del voto alla Camera. Eppure, viene da dire, proprio la battagliera conclusione dell'iter parlamentare dell'editto Berlusconi lascia un supplemento di amaro in bocca. Meglio: solleva alcune domande urgenti e chiede alcune urgenti riflessioni un po' a tutti. L'opposizione, come è noto, non ha votato l'editto ma ha -quasi compattamente- abbandonato l'aula. E ha fatto bene. Di fronte al più vergognoso provvedimento ad personam della nostra storia repubblicana, davanti a una legge che avrebbe fatto la felicità di Saddam Hussein, rimarcare con un gesto eccezionale la eccezionalità della norma, è quanto di più coerente possa fare un'opposizione che voglia comunicare al paese la sua assoluta, o ntologica estraneità a una specifica idea del diritto e del potere. Sono gesti che hanno un senso quando vengono compiuti collettivamente ed è utile e giusto che collettivamente esso sia stato compiuto.
Quello che fa riflettere, però, è il repentino mutamento intervenuto negli orientamenti dell'Ulivo nell'arco di mercoledì, il giorno del voto finale. Ricapitoliamo. Il dibattito in aula era stato fiacco, come e forse ancor più che al Senato; senza essere preceduto da battaglie ostruzionistiche neanche in commissione, dove pure il regolamento consente interventi ben più incisivi che in aula. Che ciò accadesse era del tutto in linea con il clima che aveva preceduto e accompagnato l'arrivo in parlamento della legge. Un clima che, per quel che riguarda il Senato, ho già avuto modo di raccontare su queste colonne e su cui non torno. Ebbene, a metà pomeriggio è successo un fatto decisivo. Che i cittadini chiamati dai movimenti e dai girotondi romani si siano presentati davanti a Montecitorio. Che abbiano riempito, sempre più pigiati, lo spazio loro concesso. Che i rappresentanti dei partiti scesi in piazza per informarli sull'andamento dei lavori d'aula abbiano visto la folla e ne abbiano percepito gli umori. Che si siano sentiti chiedere a gran voce di uscire dall'aula al momento del voto. E che abbiano sensibilizzato in quella direzione, con evidenti capacità di persuasione, i gruppi parlamentari di appartenenza, massimi dirigenti compresi. Da qui una scelta giustamente eclatante , la diserzione dal voto, in una direzione opposta a quella fin lì tenuta dall'intero parlamento. Quindi, in piazza, i discorsi (sempre giustamente) fiammeggianti contro l'iniquità plateale della ennesima norma salvaberlusconi.
Ecco allora le domande. Ho seguito tutto questo in diretta. E alle 20,30 di mercoledì, al primo imbrunire, quasi preso da un senso di smarrimento, mi sono chiesto dove fosse finito il mondo in cui avevo vissuto fino a otto, cinque, tre giorni prima; anzi, fino al mattino prima. Svanito, dileguato d'incanto; come in una meravigliosa magia. Dove erano finite le rampogne contro chi, al Senato, si era ingegnato di dire che questa legge era peggio della Cirami? Dove le accuse contro chi aveva cercato di organizzare un po' di ostruzionismo, sapendo che la vera sfida del monarca era evitare non la sentenza ma perfino la requisitoria della Boccassini? Ripassavo le frasi ascoltate prima e dopo il voto a Palazzo Madama, prima e dopo che alcuni di noi avevano sfilato per piazza Navona con dei cartelli di denuncia. Una monotona antologia. "Non vorrete mica richiamare qui i girotondi!". "Qui bisogna far politica e pensare al voto moderato". "Il vostro radicalismo ci ha fatto perdere i voti, la giustizia non paga" (dovetti ricordare che le elezioni in realtà le avevamo vinteŠ). "Non possiamo metterci contro il Quirinale". "Non vorrete fare le barricate come con la Cirami". Ecco, devo dire la verità, questo riferimento alla Cirami mi aveva colpito più di ogni altra cosa. E non solo per l'uso di quell'immagine, le barricate, che serviva con ogni evidenza a proiettare un'immagine di esagerazione, di estremismo, su persone semplicemente dotate di una schiena diritta e di una dose di combattività appena proporzionata alla macchina bellica dell'avversario. Ma soprattutto perché io avevo fatto riunioni, comizi, assemblee in cui avevo visto i nostri censori rivendicare davanti ai cittadini esattamente la battaglia sulla Cirami. Medaglia da intestarsi, quest'ultima, davanti al proprio pubblico plaudente, ma episodio sciagurato (guai a ricaderci...) nei dibattiti e nelle memorie di palazzo. Con tanto di stigma per chi continuasse a considerarlo un motivo di orgoglio morale e istituzionale.
E ancora. Dove erano finite, mi chiedevo sempre all'imbrunire di mercoledì, le accuse ad alzo zero contro i sedici senatori che la settimana prima avevano firmato la pubblica denuncia contro il capo del governo per attentato alla Costituzione? Dove la taccia di irresponsabilità, di incompetenza, di estremismo, di incoscienza, ora che si erano moltiplicate le autorevoli accuse di incostituzionalità, di strappi ripetuti alla Costituzione, di "fuoriuscita" dalla Costituzione? ora che tanti giuristi avevano sostenuto con nettezza la tesi che anche con norma costituzionale l'editto sarebbe stato incostituzionale?
L'isolamento cupo della settimana prima era diventato, alle 20,30 del mercoledì successivo, trionfo di piazza, festeggiamento collettivo della propria differente identità. Certo, un passo avanti, un grande passo avanti. Di cui essere lieti. Ma su cui, soprattutto dopo la celebre "firma" che dà un segno a tutto il contesto, occorre non stendere l'oblio politico. Che cos'era cambiato nella legge, tra un mercoledì e l'altro? Dove era stata intollerabilmente peggiorata? In nulla. La legge era sempre uguale a se stessa. Solo, in mezzo c'era stata la rappresentazione clownesca in tribunale del premier, l'appello dei giuristi a Ciampi, lo sdegno salito dall'opinione pubblica e soprattutto la protesta civile. Ma la politica, questa benedetta politica, dove fonda le ragioni del suo primato? Non forse nella sua assunzione di responsabilità, nel sapere cogliere il senso degli eventi anche "prima" dei cittadini, nel sapersi battere con coraggio contro le possibili incomprensioni e ostilità ambientali? Dove si giustificano le leadership se non in questo? Ed è possibile che i movimenti vengano alternativamente trattati come impicci fastidiosi o come straordinarie risorse, a seconda della loro forza presunta, o dei momenti e dei luoghi in cui si parla, come insegna la storia di questi due anni, da piazza Navona in poi? E soprattutto: se davvero si è convinti che "stavolta non si deve fare come con la Cirami", e per questo si ammoniscono severamente i propri parlamentari dissidenti, possono mai bastare duemila persone in strada per fare cambiare idea?
Insomma: doppiezza (la vecchia doppiezza), fragilità politica e morale, tutte e due le cose insieme o una terza cosa ancora? Questi sono i nodi sui quali riflettere, e riflettere con urgenza, visto che i tempi che ci attendono non saranno affatto facili. Visto che sempre più la democrazia dovremo difenderla e custodirla noi: noi con la nostra cultura civile, politica e istituzionale. Occorre decidere i princìpi in cui si crede indipendentemente dai voti e dalle manifestazioni di piazza (che certo, possono incoraggiare o risvegliare sensibilità sopite). Occorre decidere che rapporto intrattenere con i movimenti: se superbo, ammiccante o amichevole e leale.
E infine, una richiesta per tutti. Per favore, nei nostri discorsi (si tratti di immunità parlamentare o informazione o conflitto d'interesse) non parliamo più, allusivamente, del "Colle". Perché ormai non si capisce più se ci si riferisce ai consiglieri del Quirinale, agli ambienti vicini al Presidente, o a Carlo Azeglio Ciampi in persona. Voglio dirlo. Mercoledì scorso ho subìto, davanti a Montecitorio, un inizio di contestazione perché mi si rimproverava, da parte di alcuni cittadini, la firma ormai certa di Ciampi sull'editto Berlusconi. No. Proprio no. Questo è il momento delle responsabilità personali. Io, come tanti altri, me le prendo. I partiti si prendano le proprie. Il Presidente pure. Non c'è più nulla da mescolare, non ci possono più essere zone grigie o di tacita intesa. Davanti agli anni che verranno, davanti all'Europa che guarda attonita, ognuno mostri se stesso. Non siamo tutti uguali. In fondo lo stiamo vedendo: ci sono molti modi di essere italiani.


Nando dalla Chiesa
l¹Unità, 22 giugno 2003

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