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Specchi (di Paola Carini)
31.03.2006
In quanto esseri umani moderni, nella vita quotidiana siamo attori sociali costantemente accasellati in base all’appartenenza religiosa, linguistica, etnica, nazionale, culturale o politica, in base allo stato giuridico, alla qualifica professionale, ai tratti somatici. Frazionati in un arcipelago di specchi scomposti che rinviano immagini semplificate e inevitabilmente riduttive, siamo trasformati in pezzi disconnessi e incoerenti di noi stessi. Ognuno di quegli specchi è un’inferenza, una abduzione, un postulato che, ancorché facilmente fruibile da chi ci deve identificare, attende una verifica, un accertamento, un’argomentazione concludente.

Considerare l’essere umano suddivisibile e ripartibile permette di appiccicargli etichette riconoscibili e di imprigionarlo in categorie universalmente accettate; chi vi sfugge ─ pensate ad artisti dall’identità e dalla storia personale complessa come quella di Moni Ovadia ─ è irriconoscibile quando non disconosciuto. La burocrazia in questo è maestra: nel censimento statunitense del 2000 per la prima volta si è lasciato all’individuo il compito di identificare sé stesso scegliendo tra una rosa di cinque macrogruppi (bianchi, neri o afro-americani, nativo-americani e nativi dell’Alaska, asiatici, nativi delle Hawa’i e delle isole del Pacifico) con due opzioni aggiuntive: “altre razze”, ossia etnie o nazionalità non rientrate negli altri gruppi, e “due o più razze” (al massimo sei) per le persone con discendenza multietnica. Per mescolanze prodigiosamente più articolate, non frequenti ma possibili, non ci sono caselline da sbarrare.

In Italia, i bambini nati da genitori non italiani non sono italiani, anche se la loro vita si è svolta interamente in Italia, anche se non conoscono nulla del paese d’origine e spesso non lo hanno mai nemmeno visitato; dovranno attendere il compimento del diciottesimo anno per fare domanda di cittadinanza. I palestinesi, dal canto loro, hanno un complicatissimo status legale che li distingue a seconda della provenienza rendendoli tutti diversi: se sono della Cisgiordania sono palestinesi ma possono avere almeno quattro tipi di passaporto differenti; risiedendo a Gerusalemme sono palestinesi ma possono non avere passaporto palestinese bensì documenti di viaggio israeliani, pur non essendo cittadini d’Israele; se provengono, invece, dalla Striscia di Gaza ma sono residenti in Cisgiordania sono palestinesi che possono avere passaporto palestinese.

Per i nativo-americani la questione sarebbe ridicola se non fosse tragica: il “computo del sangue indiano” (come raccontato nell’articolo dal titolo “Impronunciabilità” in questa rubrica), pone non pochi problemi ai “sangue misto” e addirittura a persone i cui avi erano esclusivamente persone autoctone ma di tribù diverse. Laggiù, più procedeva il frazionamento della terra da colonizzare più si frazionava l’individuo: un ottavo di sangue “indiano”, un ottavo di sangue bianco, la scelta esclusiva di questa affiliazione tribale piuttosto che di quella. Più numerosi sono gli antenati “caucasici” meno si è “indiani” e, per molto tempo, è bastata “una sola goccia” di sangue afro-americano per essere neri.

Oggi le persone di sangue misto ma non affiliate, per ragioni storiche o familiari, ad alcuna tribù autoctona americana, identificano sé stesse elencando tutte le loro diverse origini, ad esempio choctaw-chickasaw-irlandese-tedesca, come atto di resistenza ad una colonizzazione strisciante che li vorrebbe obliterati. Con quel trait d’union intendono sottolineare che un piccolo segno grafico, lungi dal disgiungere, esprime compiutamente l’interezza di una identità variegata. Nel passato, in un piccolo angolo del continente, c’è stato un momento in cui persone dalle origini e dalla storia completamente diverse hanno inceppato il meccanismo fagocitante della conquista facendo di una improbabile mescolanza un luogo di comunità. La forza sociale e militare che ne ricavarono fu, per un po’, impressionante.

Nel corso del 1700, quando i coloni iniziavano a premere per espandersi verso ovest, gruppi di popolazioni autoctone originarie degli stati di Georgia, Alabama e Mississippi (principalmente creek) emigrate nell’allora spagnola Florida si unirono ai sopravvissuti nativo-americani della zona e cominciarono ad accogliere fuggitivi africani scappati dalla schiavitù. Da questa inimmaginabile alleanza, che creava non poca irritazione tra i “padroni” delle piantagioni, nacque una nuova nazione indiana: i seminole. Il nome, sia che derivi da “cimarrones” ossia selvaggi, sia che sia una storpiatura della parola “yat’siminoli”, che in lingua hitchiti significa gente libera, ha evocato per decenni il ricordo di “indiani” irriducibili che combatterono fino all’ultimo per non essere conquistati. La costante evasione per raggiungere gli insediamenti nativo-americani continuò anche nell’Ottocento e, ben presto, lo strano amalgama di genti, lingue, culture diverse che divenne la nazione seminole si irrobustì, provocando noie sempre più consistenti ai novelli Stati Uniti d’America. Dell’effettiva condizione degli schiavi accolti da questi e da altri gruppi nativo-americani si è dibattuto a lungo. Divennero schiavi di altri padroni o godettero di ben altro trattamento? Senza dubbio la loro incorporazione fu progressiva: all’inizio i fuggitivi erano “alleati” che avevano diritto ad un appezzamento coltivabile, ad una casa, ad una vita libera per quanto legata alle regole, agli usi e ai costumi del gruppo indiano che li aveva accolti. Il riconoscimento legale avvenne più tardi, ma nei modi e nei tempi imposti dal governo americano, il quale non aveva altro scopo che indebolire le nazioni indiane per poter completare il ladrocinio di un intero continente.

Nel 1817, un po’ perché la Florida era ancora in mano spagnola, un po’ perché occorreva andare a recuperare gli schiavi, l’allora Generale Andrew Jackson vi penetrò con l’esercito mettendo a ferro e a fuoco parecchi villaggi per un anno intero in quella che venne chiamata la Prima Guerra seminole, al termine della quale la Spagna cedette l’intero territorio agli Stati Uniti. Jackson ne divenne in seguito governatore, ma gli schiavisti della Georgia volevano indietro i loro maroons, gli schiavi ribelli indomiti e fuggitivi e quelli liberati, mentre altri coloni ne volevano, molto più pragmaticamente, la terra. Nel 1832, col trattato di Payne’s Landing sottoscritto da alcuni capi seminole, gli Stati Uniti se ne impossessarono definitivamente, ma non fecero i conti con la guerriglia estenuante dei seminole e dei black seminole (i seminole neri) guidati da Osceola e rimasti caparbiamente nelle terre tradizionali. Con poco più di mille combattenti, Osceola tenne in scacco per molto tempo un esercito che arrivò a contare fino a novemila soldati. Dal 1835 al 1841 la Seconda Guerra seminole snervò un esercito ben più organizzato e armato fino a quando, stremati, i seminole si arresero alla migrazione forzata in Oklahoma. Alcuni, rifugiati nelle Everglades, si separarono alla fine in due gruppi distinti: la tribù dei seminole della Florida, di lingua creek, e la tribù degli indiani miccosukee della Florida, che parlano una lingua diversa, seppure affine. Questi ultimi furono i primi indiani ad aprire e gestire un fiorente casinò sulle loro terre nel 1979. La nazione seminole, la più numerosa, rimane ad oggi quella dell’Oklahoma.

Negli anni successivi alla Guerra Civile americana, gli Stati Uniti dovettero rinegoziare i trattati con le tribù che durante la guerra avevano apertamente sostenuto gli stati confederati, usciti sconfitti. Sia creek che choctaw che seminole avevano sottoscritto trattati con la Confederazione poiché essa assicurava vantaggi notevoli, come ad esempio il diritto all’autogoverno e il diritto a propri delegati alla Camera dei Rappresentanti. Anche i cherokee e chickasaw firmarono un trattato simile con la Confederazione, ma questo repentino cambio di alleanze, per quanto all’apparenza più favorevole, lacerò le tribù, che finirono col dividersi al loro interno in fazioni opposte. Pedine in uno scacchiere ben più grande di loro, queste cinque grandi nazioni conosciute come le Cinque Tribù Civilizzate per l’acquisizione di costumi occidentali, si ritrovarono nuovamente sotto il giogo statunitense. Tra le clausole dei nuovi trattati accettarono anche quella di accogliere come membri a tutti gli effetti i loro “schiavi”, che fossero “maroons” o assimilati da altre tribù autoctone.

E così fu.

Dagli anni sessanta del 1800 fino alla fine del secolo, le cinque tribù convissero con gli ex-schiavi, vi si mescolarono attraverso matrimoni misti e ne condivisero il razzismo legislativo e la ghettizzazione nel Territorio Indiano. Quando esso divenne lo stato dell’Oklahoma, cioè quando vi si scoprì il petrolio, tutti ne patirono le conseguenze. Immediatamente il governo si adoperò con frettolosa necessità a censire gli indiani e parcellizzarne le terre per applicare il General Allottment Act, o Dawes Act, e spremere così altra terra da rivendere al miglior offerente. In una serie di elenchi (Dawes Seminole, Creek, Choctaw, Chickasaw, Cherokee Freedmen Rolls) incluse solamente gli “indiani neri”, ossia gli schiavi fuggiti o i loro discendenti che decise di chiamare freedmen, uomini liberati. Così facendo ne ipotecò pesantemente il futuro: disgiungendoli per legge dal resto gruppo, diede loro un’identità separata, unica e inequivocabilmente nera. In concomitanza, per tutti gli altri introdusse il concetto della conta del sangue cambiando i requisiti legali dalla semplice “cittadinanza” indiana – cioè l’appartenenza effettiva e riconosciuta al gruppo – al numero di antenati nativo-americani. Suddividendo le nazioni in categorie – principalmente full blood, mezzosangue, freedmen – il governo era riuscito nell’intento di frantumare la coesione delle tribù. I cardini sociali, culturali, affettivi che avevano fatto di gruppi di persone eterogenee un’unica comunità erano saltati. La mescolanza si fece tristemente scissura. E la terra vacante divenne un enorme e ghiotto boccone.

La tenuta sociale dei seminole dell’Oklahoma perdurò, nonostante tutto, fino ad un pugno di anni fa, quando il governo federale destinò 56 milioni di dollari alla nazione seminole come risarcimento delle terre perdute in Florida. Così, nel 2000, una vasta maggioranza di seminole votò per cambiare la propria Costituzione nel punto in cui assicurava ai discendenti dei “freedmen” il riconoscimento di appartenenza - in sostanza si volevano escludere tutti coloro che non potevano provare attraverso i documenti del governo di avere “sangue indiano”. Intervenne il Bureau of Indian Affairs che, non riconoscendo la nuova Costituzione, bloccò l’esborso. Due anni dopo, la nazione seminole reintegrò i membri di colore nel consiglio tribale. Una vicenda simile coinvolge anche i freedmen della nazione cherokee. Da un lato, la più alta corte di giustizia cherokee ha recentemente accordato loro la possibilità, oltre che il diritto, di mantenere l’appartenenza alla nazione. Dall’altro, il capo della nazione cherokee Chad Smith continua a non considerarli affatto dei cherokee.

Nell’arcipelago di specchi scomposti i “freedmen” non vedono che frammenti disconnessi e incoerenti di sé stessi, mentre attendono un’argomentazione concludente sulla loro identità nonostante secoli di storia in comune.

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