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Attaccati i scarpi!
31.03.2006
Piero Buscemi / Girodivite.

Non è vero che le generazioni siano diverse. È un’illusione. O solo, una consolazione. Per quelle nuove, che credono di vivere in maniera diversa. Moderna, ci suggerisce la retorica. Per quelle vecchie, che non smetteranno mai di dire “ai nostri tempi...”.

Poi, il tempo passa. Anche per le nuove generazioni. Si assumono nuovi ruoli e la retorica si trasforma in nostalgia. E’ come ammettere, che niente è diverso da ciò che l’ha preceduto, e non lo sarà da ciò che lo seguirà.

È come ammettere, che a quindici anni, puoi “scremare” le ore per le strade, fino a tarda notte. Perché rientra nei tuoi diritti di giovane, che si affaccia alla vita. Ed occupare angoli di quartiere, dove poter manifestare questi diritti. Con l’arroganza.

Una donna, A.F., ha invaso questo “diritto”. Venerdì sera. Un semplice gesto quotidiano. Senza interferire, chiedendo quasi scusa. Ha provato a regalare cordialità, invitando il branco a scostarsi dalla strada, per parcheggiare la sua auto. In cambio ha avuto un inchino di motteggio. Disturbato e costretto ad assecondare la richiesta.

Sabato mattina, la sorpresa. Forse, prevedibile. Scontata, in una città che non si sorprende più. Che si accontenta di risposte artefatte e di quieto vivere. La sua auto, comprata da tre mesi e una vita di rate da pagare. Incisa ed oltraggiata su tutta la vernice. Segni ondulati ed indelebili a indennizzare lo sgarro di una gentilezza.

Sono quelle risposte, che la gente è sempre disposta ad offrirti in queste circostanze che scalfiscono la rassegnazione, più dei geroglifici di quattro bulli di quartiere. Sono quei “ringrazia che ti hanno lasciato l’auto” o “che li denunci a fare?” che uccidono l’idea di una città più umana. Umana. Come un aggettivo così nobile, possa assumere i connotati dell’utopia! Ma anche della contraddizione.

Cosa c’è di umano nell’arroganza? Cosa, nel mancato rispetto della vita, di chi ti taglia la strada e non pensa che, al posto tuo, poteva esserci un bambino? Cosa, in una madre che accompagna i figli a scuola e getta dal finestrino dell’auto una buccia di banana, perché qualcuno la raccoglierà per lei? Cosa, nella risposta “fatti i cazzi tuoi” a chi le ha fatto notare la sua maleducazione?

Cosa, nei tre minorenni che, questa estate, annoiati dalla caligine notturna, hanno distrutto i finestrini di una trentina di auto? Cosa, in chi da mesi sta facendo strage di cani randagi tra l’Isola e il Plemmirio? Già, i cani. Forse, è proprio l’utilizzo improprio dell’aggettivo “umano” che spiegherebbe la inconciliabilità della logica con tutto questo.

Ma noi li abbiamo visti i cani. Che si azzuffano per contendersi una femmina in calore o un tozzo di pane duro. Li abbiamo visti nei loro istinti naturali, litigare un diritto gerarchico. Ringhiare per fare la voce grossa. Talvolta azzannarsi. Un breve istante prima di un altro istinto primordiale. Quello della salvaguardia della specie.

Ma abbiamo visto anche, tre ventenni caricarsi un minorenne in auto per estorcergli 20 euro, in cambio della libertà. Come è successo a Catania lunedì. Abbiamo visto una donna stuprata, in un parco di Gallarate, mentre faceva jogging. Abbiamo visto una ragazza di venti anni, accoltellare la rivale in amore, a Messina. Abbiamo visto un impiegato dell’ospedale San Donato di Arezzo, condannato per violenza sessuale ai danni di una donna affetta da deficit mentale.

E potremo andare avanti, a stilare una lista senza fine. Tutto questo ci rimanda il pensiero alle immagini di un passato non lontano. Descritto e enfatizzato nei film italiani anni ’70 o in quelli della tradizione americana, intrisa di bande di quartiere tra grattacieli newyorchesi e baracche semi nascoste. Come se il cinema potesse darci qualche risposta. O un’altra fuga dalla realtà.

Potremmo guardare all’esperienza di altre sfere metropolitane. Pensare a Milano e alla sua polizia privata di quartiere, formata molte volte da semplici cittadini con qualche esperienza da guardia giurata e che, qualche anno fa, girava per le strade più a rischio. Un corpo di sicurezza cittadina improvvisato, sostituito da una legge di Stato, con il poliziotto e il carabiniere di quartiere.

Potremmo chiederci dove sono queste nuove figure delle forze dell’ordine? Dove, materialmente? E che orari fanno? Come vengono scelti e quali i criteri di scelta? Li vediamo di giorno, sporadicamente. Giovanissimi. Da confonderne le facce con chi intralcia quotidianamente la tua voglia di tranquillità.

L’idea dell’agente di quartiere, che perlustrasse gli angoli meno sicuri della città, poteva e potrebbe essere una soluzione. Ma a Siracusa, e sicuramente in molte altre città, è diventato l’espediente per limitare la disoccupazione. Come i vigili urbani ausiliari che, stranamente, appaiono dal nulla come funghi. E solo in certi periodi dell’anno. E scompaiono come funghi. In attesa di un Lunardi in visita ufficiale o di altri eventi d’occasione.

La notte, non li vedi. Il loro turno finisce molto prima. E se nella notte, provi a chiamare la centrale per un’improvvisa necessità, non c’è una pattuglia disponibile che possa venirti in soccorso. Perché questa, qualcuno lo dimentica ogni tanto, è una città dove la mafia ha una sua collocazione ben precisa. Perché questa è una città, dove il pizzo non è solo un simbolo di folclore cinematografico. E le poche pattuglie disponibili sono impegnate ad arginare problemi più seri di un episodio di bullismo tra adolescenti.

Ma noi vorremmo reagire alle frasi preconfezionate. Alle generazioni che hanno mutato soltanto i mezzi, per esternare la loro indifferenza. A chi subisce e s’illude che, basterebbe solo uno scambio di “buongiorni” per provare a cambiare.

Ci abbiamo provato, chiedendo qualche opinione a M. C., poliziotto addetto alla volante, che a Siracusa ha prestato servizio, qualche anno fa. Ci ha raccontato di come rimase molto sorpreso della “quiete” di questa città. Dei turni senza stimoli, tra le viuzze di Ortigia. Di qualche inseguimento agli spacciatori di quartiere. Di posti di blocco per i motorini, occasione per scambiarsi i numeri di cellulare con le ragazze senza casco.

E ci ha raccontato dei suoi turni di pattugliamento, con un collega anziano del posto. Si è soffermato su un episodio, degno dei personaggi letterari di Sciascia. Quando, un pomeriggio incontrarono un gruppo di ragazzi che si scambiavano opinioni diverse su come dividersi il bottino di uno scippo.

M.C. ricorda ancora lo sguardo del collega, che aveva riconosciuto qualcuno di quei “bravi” ragazzi. Ricorda la risposta ai suoi occhi che chiedevano e che il collega riassunse in un: “Attaccati i scarpi!” (allacciati le scarpe)

È vero: le generazioni non cambiano. E non lo faranno mai se non si comprenderà che, la mafia si nutre di bullismo e di giovani annoiati. Di cittadini onesti, stanchi dell’inerzia dello Stato. Di chi è disposto a cercare giustizia fuori dai canoni della legalità.

Di chi si è convinto che, reagire o rassegnarsi, sono le facce della stessa medaglia.

Fonte: http://www.girodivite.it/Attaccati-i-scarpi.html

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