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L’isola per noi
30.04.2006
di Paola Ceretta, Michela Taeggi / socialpress.it

All’Isola siamo sbarcate più di un anno fa.
Un po’ per sondare gli umori del quartiere a proposito del piano di riqualificazione Garibaldi-Repubblica, un po’ attratte dal fascino misterioso di quest’antico agglomerato milanese.

Con la memoria torniamo fino ai tempi degli Sforza, quando in questa zona, all’epoca verde campagna, Veniva Leonardo Da Vinci, in cerca di un po’ di pace per meditare sulle sue imprese letterarie e scientifiche.
Di qui passò Garibaldi, che per una notte si rifugiò al 14 di via Borsieri, che nella seconda metà dell’ ‘800 era l’unica via del quartiere.
A fine del medesimo secolo venne aperto, all’inizio di via De Castilla, il primo scalo ferroviario commerciale di Milano, che collegava la città al borgo di Monza.

Facendo lunghi passi indietro nella storia, in piazzale Lagosta, dove ora sferragliano i tram, alla fine del 1600, venne creato il Cimitero della Mojazza, dove riposarono, accanto alle fosse comuni dei poveri, anche le ossa del poeta Giuseppe Parini e di quel Cesare Beccaria, padre di Giulia Beccaria e nonno di Alessandro Manzoni.

Un passo indietro di ancora un secolo e troviamo un notabile milanese guarito dall’acqua che ancora oggi sgorga dalla pietra custodita nel Santuario di Santa Maria alla Fontana.

Ma l’Isola è famosa anche per essere stata, fino a non molto tempo fa, il rifugio della mala nostrana.
“Non erano cattivi”, ci ha raccontato qualcuno. In quartiere non hanno mai fatto male a nessuno. Rubavano ai forestieri e ai ricchi e in genere, così racconta la leggenda, dividevano il bottino con gli altri “isolani” o, almeno, con chi aveva più bisogno.
Rubavano qualsiasi cosa. Pare che una volta, un signore non meglio identificato, fosse entrato in possesso, non si sa come, ma ce lo possiamo immaginare, di un camion pieno di damigiane d’olio e girava tra i suoi “compaesani” a distribuire la refurtiva.
Già, proprio così: compaesani. Sì, perché l’Isola, ancora oggi, ha l’aria di un paese, dove tutti si conoscono, dove tutti si aiutano, dove la vita è più tranquilla. O, almeno, era questa l’idea che ci eravamo fatte prima di arrivare qui ed è questo lo spirito con cui volevamo raccontare questo pezzo di Milano.
Non è andata proprio così. Abbiamo bussato a molte porte, qualcuna ci è stata aperta, qualcuna no. Da una storia siamo entrate in un’altra, in una rete sempre più complessa, come l’intrico di strade e stradine che compone questo quartiere.

Chiacchierando con chi ci abita e chi ci lavora abbiamo scoperto che l’Isola vive di tante anime che spesso non s’incontrano, a volte si scontrano e raramente si incrociano. E la magia si rompe. L’atmosfera di un luogo a sé, nel cuore della Milano della Moda e della Borsa sempre in corsa contro il tempo, rimane, anche se siamo sempre più convinte che il fascino misterioso dell’Isola dipenda più dalle aspettative del “forestiero” che cammina per le sue vie e dal mito che è stato costruito nel tempo, che dalla realtà che si può toccare con mano.
Da quartiere isolato dal resto della città, ben protetto da boschetti e ponti, la cui forza era la coesione dei suoi abitanti, l’Isola di oggi si sente attigua alla fashion street Corso Como. E il nuovo avanza.

Dopo la seconda guerra mondiale l’Isola era un quartiere a forte concentrazione operaia. Qui si trasferivano le famiglie degli operai della Brown Boveri, bene accetti dagli indigeni. La fabbrica di motori marini e locomotive è stata chiusa negli anni ’80. Tra le sue rovine è cresciuta la Stecca degli artigiani, nella qual convivono diverse realtà. Artigiani veri e propri che, sfrattati dal Comune dai precedenti locali, hanno trovato posto qui: restauratori, tapparellai, lattonieri, ecc.
Accanto a loro alcuni giovani hanno occupato degli spazi per proporre dei progetti artistici-culturali: Isola Art Center, dove ogni mese viene inaugurata una mostra, con importanti artisti del panorama italiano e internazionale, Cantiere Isola, Isola Tv, Controprogetto e altri collettivi che propongono interessanti rassegne musicali e cinematografiche.

Negli anni ’70, proprio nei giardini a fianco della Stecca, c’era un convento che un manipolo di giovani occupò per qualche anno, facendone un polo politico-sociale della sinistra antagonista, assai importante in quel periodo a Milano.
Sempre in tema di occupazioni, intorno a piazza Minniti si sono alternati Sant’Antonio Rock Squat (via Garigliano) e l’ostello autogestito Metropolix, oggi sgomberati.
Più avanti incontriamo Pergola, realtà storica nell’ambito dei centri sociali meneghini. Da una situazione di occupazione sono passati a un contratto d’affitto con il quale garantiscono la loro permanenza nel quartiere (leggi: no incubo sgombero) e si sono concentrati su una vasta offerta di servizi: la caffetteria, una libreria, il postello (ostello autogestito), lo sportello dei Chainworkers per i precari, e una feconda serie di iniziative sociali e culturali.

Forse loro sono gli unici che sopravvivranno se il piano di riqualificazione Garibaldi-Repubblica verrà attuato.
Questo progetto prevede la costruzione di un centro per la moda e numerosi grattacieli, accompagnati da varie colate di cemento. Per far posto al “progresso” come l’ha definito qualcuno, verranno smantellati la Stecca degli artigiani e i giardini che la incorniciano. Costruiranno anche un centro commerciale.
Alcuni negozianti hanno paura di non riuscire a resistere alla concorrenza e di dover chiudere, altri non vedono l’ora che arrivi la città della moda, così il quartiere diventa più famoso, più pulito, arriva più gente, gente nuova, gente ricca.

Il contraccolpo di questa riqualificazione si è già fatto sentire nell’aumento esponenziale dei prezzi degli immobili, che i proprietari stanno facendo tirare a lucido. Dove ti giri, all’Isola, c’è un’impalcatura.
Intanto, prima che città della moda, negli ultimi anni l’Isola si è guadagnata il soprannome di Nuova Brera: hanno aperto molti locali notturni, bar di tendenza che offrono sontuose happy hour, wine&food bar di alta classe, negozi di fiori che sembrano boutique, oggettistica e design trendy... Accanto a loro ci sono, però, anche negozi di autoproduzioni, vestiti, gioielli, cappelli ...

Sono arrivati nuovi abitanti, gente che può permettersi cifre astronomiche per comperare un appartamento.
Parallelamente c’è una maggior concentrazione di immigrati che hanno aperto macellerie e take away.
In parecchi, però, li guardano con diffidenza, venata, a tratti, di insofferenza. Gli stessi pensano che se arriverà la città della moda, loro verranno spazzati via, perché sono loro che dequalificano il quartiere.
Comunque, il nuovo accanto al vecchio, oggi all’Isola si trova un po’ di tutto, ci sono persino una scuola di circo e una di capoera.

A volte, sembra quasi che questo quartiere voglia rinnegare le sue antiche radici di borgo popolare per rifarsi il look e assomigliare a un altro luogo qualsiasi della Milano da bere. Come se essere fuori dal tempo, essere un luogo straordinario, perché fuori dall’ordinario, sia una sciagura tremenda invece che un valore da preservare.

In via Volturno, c’era la sede del PCI, inaugurata da Togliatti nel 1964. Oggi c’è una saracinesca chiusa con un graffito.
Al posto della libreria Rinascita, da poco più che un decennio c’è una galleria d’arte. Anzi, le gallerie d’arte sono l’articolo che abbonda di più all’Isola: piccole, efficienti, interessanti. L’unica libreria storica dell’Isola è gestita da un libraio scorbutico.

Su tutti resiste il teatro Verdi: la sua storia è lunga più di un secolo.
Una volta, la Scala non aveva un suo coro stabile, quindi si appoggiava a diverse corali, spesso composte da appassionati melomani che durante il giorno svolgevano un altro lavoro e la sera si ritrovavano per cantare l’opera. Uno di questi cori ausiliari era la Corale Verdi che fondò l’omonimo teatro.
Negli anni ’20 divenne una balera, durante la seconda guerra mondiale i fascisti ci torturavano i partigiani, poi divenne un cabaret e, infine, la sede del Teatro del Buratto.

Da più di 40 anni, in via Sebenico, ha la sua sede la trattoria Dal Verme. Una delle ultime vere trattorie meneghine.
Pochi piatti, cucina rigorosamente casalinga, mamma in cucina, figlia in sala e papà al bar. I tavoli sono talmente vicini che non si può non socializzare con gli altri avventori.
Il vecchio proprietario non disdegna un caffè con i clienti che si attardano, mostrando orgoglioso la foto in bianco e nero appesa al muro, di quando da giovane correva in bicicletta, con Coppi e Bartali.
Qui sì che si può respirare, magari per mezz’oretta, l’aria della vera Isola, dell’Isola che c’era.

Fonte: http://www.socialpress.it/article.php3?id_article=1229

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