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Il dualismo del mercato del lavoro
14.05.2006
Pietro Ichino / lavoce.info -

La scelta compiuta dalla Cgil con il congresso di marzo, sul terreno della riforma dei rapporti di lavoro, è difficilmente contestabile nel suo assunto di fondo: la protezione offerta dal diritto del lavoro, quale che ne sia il contenuto, deve essere estesa a tutti i lavoratori in posizione di dipendenza economica; va superata la distinzione, in larga misura artificiosa, tra "subordinazione" e "parasubordinazione", tra "lavoratori" e "collaboratori continuativi"; va disboscata la giungla dei rapporti di lavoro "atipici", che genera distorsioni e disparità di trattamento ingiustificate e che, oltretutto, con la sua complessità non giova neppure alle imprese; è ora di superare il dualismo che (non in conseguenza della legge Biagi del 2003, ma in misura crescente ormai da molti anni) caratterizza fortemente il diritto e il mercato del lavoro italiani, scaricando tutto il peso della flessibilità di cui imprese ed enti pubblici hanno bisogno soprattutto sulle nuove generazioni.

Un nuovo assetto del lavoro tipico

Questa opzione, tuttavia, pone bruscamente la stessa Cgil e l’intero movimento riformatore di fronte a un dilemma cruciale. Estendere a tutti i lavoratori in posizione di sostanziale dipendenza lo Statuto dei lavoratori, così com’è, non è possibile senza imporre al sistema un’ingessatura insopportabile e senza mandare a casa centinaia di migliaia, se non milioni, di persone.
Se la parola d’ordine della riunificazione del diritto e del mercato del lavoro non vuole restare uno slogan vuoto, se vuole portare a una riforma effettiva e incisiva, essa comporta l’ideazione di una nuova "rete di sicurezza" davvero suscettibile di applicazione universale: un nuovo assetto del rapporto di lavoro tipico, capace di sostituire l’intera giungla attuale di tipi contrattuali.
Voltar pagina rispetto a vent’anni di crescente dualismo del mercato del lavoro italiano è il solo significato positivo che la politica del lavoro del nuovo Governo può attribuire alla propria scelta programmatica del "superamento" della legge Biagi. Un significato che sarebbe certamente piaciuto allo stesso Marco Biagi (posso dirlo, per averne lungamente discusso con lui negli ultimi anni della sua vita) e che aiuterebbe a trovare un punto di intesa su questo tema non solo tra le diverse anime del centrosinistra, ma anche con alcuni settori dell’opposizione interessati a evitare il "muro contro muro" su quella legge.
Se questo è l’obiettivo, il nuovo assetto del rapporto di lavoro tipico dovrà, sì, estendere a tutti i lavoratori, fin dal loro primo ingresso nel tessuto produttivo, oltre alle assicurazioni sociali fondamentali per malattia, maternità/paternità, invalidità e disoccupazione, anche una protezione piena e forte contro le discriminazioni e contro l’uso arbitrario o comunque infondato del potere disciplinare. Ma, per il resto, nella prima fase della vita lavorativa i rapporti di lavoro dovranno necessariamente avere un grado di stabilità minore rispetto alle fasi ulteriori. Questo è necessario, innanzitutto, per consentire la migliore allocazione delle risorse umane nel tessuto produttivo: ciò che può richiedere talvolta più di un tentativo di inserimento aziendale della stessa persona, in funzione del suo stesso interesse alla migliore valorizzazione delle sue capacità. Ma è necessario, inoltre, per evitare un drastico effetto depressivo sulle possibilità dei giovani di accesso al lavoro regolare: in un sistema nel quale la prima assunzione fosse consentita soltanto con un rapporto di lavoro ad alto grado di stabilità, i più giovani sarebbero fortemente penalizzati rispetto a chi già lavora e ha quindi già alle spalle una storia professionale che fornisce informazioni sulle sue qualità specifiche (non va dimenticato che proprio per questo, nella seconda metà degli anni Settanta, fu il sindacato – sulla scorta soprattutto di un’idea di Bruno Trentin - a chiedere l’introduzione del contratto di formazione e lavoro: cioè, in sostanza, un contratto a termine di ingresso con retribuzione ridotta, in funzione dell’inserimento professionale dei più giovani).

Le tre proposte

I tre progetti che vengono presentati qui di seguito costituiscono un contributo a questa riforma. L’idea che li accomuna è quella di delineare un dispositivo di accesso graduale al regime di stabilità piena del rapporto di lavoro, suscettibile di sostituirsi integralmente all’insieme eterogeneo dei rapporti di lavoro "fuori standard" che caratterizzano il regime attuale.
Il primo (Boeri-Garibaldi) prevede un rapporto di lavoro unico a tempo indeterminato, assistito fin dall’inizio da protezione forte (articolo 18 dello Statuto dei lavoratori) contro discriminazioni e licenziamento disciplinare ingiustificato, e, per quel che riguarda il licenziamento per motivi economico-organizzativi, caratterizzato da un primo periodo di tre anni di protezione soltanto indennitaria. Il secondo (Leonardi-Pallini) si caratterizza rispetto al primo per una flessibilizzazione più limitata della tutela contro il licenziamento per motivi economico-organizzativi: un periodo di franchigia allungato fino al massimo di un anno, seguito da un regime di mera incentivazione dell’accordo economico tra le parti per la cessazione del rapporto in alternativa all’applicazione della vecchia disciplina protettiva, sul modello della legge tedesca Hartz del 2003.  Il terzo (Andrea Ichino) si distingue invece dai primi due per la previsione, in alternativa al contratto da tempo indeterminato con protezione piena fin dall’inizio, della possibilità di prima assunzione con un contratto a termine di durata non inferiore a tre anni, non rinnovabile presso la stessa impresa, fruibile dallo stesso lavoratore fino a un massimo di tre volte presso imprese diverse, e con costi di transazione ridotti al minimo; in altre parole: libertà di sperimentare con il lavoratore a termine, purché sia un esperimento serio, con un orizzonte temporale sufficientemente ampio, sul quale l’ente o impresa che assume investe almeno tre anni di retribuzione (una soluzione che presenta un interesse particolare per il settore pubblico).
Sono solo tre possibili assetti di un nuovo regime unitario del rapporto di lavoro tipico, suscettibili anche di combinazione tra loro, o di diverse modulazioni dei parametri di protezione. Suscettibili, peraltro, di favorire l’ingresso o il rientro nel mercato del lavoro non solo dei giovani, ma anche delle donne dopo la maternità, nonché di qualsiasi lavoratore maturo o anziano, per il quale l’alternativa secca tra disoccupazione e stabilità integrale costituisce sovente un ostacolo grave al reimpiego. Sono tre possibili riforme della materia a costo zero per le casse dello Stato. E sono tre possibili riforme politicamente più facili, per la prudenza e moderazione cui sono ispirate, rispetto ad altre di cui si è discusso di recente in Europa (tutte e tre meno radicali, per esempio, rispetto a quella proposta da Blanchard e Tirole, che pure merita sempre di essere tenuta presente nel dibattito, per la logica stringente cui essa si ispira).
Ma ciò che più conta è che, per un verso, il superamento del dualismo attuale tra lavoro "di serie A" e "di serie B" non è ragionevolmente pensabile se non attraverso una rimodulazione delle protezioni almeno nella prima fase della carriera lavorativa di tutte le persone. Per altro verso, esso è politicamente proponibile - nel quadro di una riforma concertata tra le parti e il Governo sul modello dell’accordo tripartito spagnolo di questi giorni - proprio in quanto la rimodulazione riguarda soltanto quella prima fase, non intaccando pertanto l’assetto del rapporto né nella fase intermedia né in quella finale.

Fonte: http://www.lavoce.info/news/view.php?id=10&cms_pk=2151&from=index

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