|

|
|
Welfare Italia |
Foto Gallery |
Ultima immagine dal Foto Gallery di Welfare Italia |

|
|
 |
Ultimi Links |
 |
|
|
 |
 |
 |
 |
Manifesto per un partito, non per una fusione (di M. Salvati) |
 |
30.06.2006
Democratici. Come costruire una forza che vada oltre DS e Margherita. - da www.ilriformista.it
La condivisione di pezzi significativi
di diverse tradizioni sono cose assai importanti per le élite politiche
e i militanti, meno per i cittadini
Un "partito nuovo" non nasce e non
sopravvive (di nuovi partiti ne nascono e muoiono a bizzeffe) se non
risponde a una esigenza storica, a una domanda del tempo, che i suoi
promotori sono capaci di avvertire anche quando essa non è esplicita.
Nasce e sopravvive se vi risponde. Se i suoi promotori riescono a
identificare aspirazioni già profondamente sentite di un gran numero di
cittadini e a strappare dall'incertezza o dall'incoscienza altre
esigenze ancora latenti; se riescono a rendere credibile un'analisi
coerente e realistica dei problemi che il Paese affronta; se riescono,
soprattutto, a rendere desiderabili soluzioni efficaci a questi
problemi. A differenza dell'Angelus novus di Benjamin, un partito nuovo
guarda in avanti, non è sospinto dalla bufera mentre tiene il viso
rivolto all'indietro.
Un Manifesto di fondazione, una Carta dei valori
e dei principi, un programma fondamentale - il nome verrà scelto quando
sarà il momento: ora uso il primo - dovrebbe fornire una sintesi
efficace di quelle aspirazioni, di quelle analisi, di quelle soluzioni.
E' un biglietto da visita, una carta d'identità , un invito alla
mobilitazione, e dev'essere tanto breve quanto lo consentono la
chiarezza e l'efficacia retorica. Soprattutto dovrebbe far comprendere
perché c'è bisogno del partito democratico e gli obiettivi che esso
intende perseguire.
Non è mio compito o mia intenzione fornire un
modello di questo Manifesto. Quello che mi propongo è solo di suggerire
a chi dovrà redigerlo qualche tema su cui riflettere, partendo dalla
crisi in cui si trova il nostro Paese per arrivare al contributo
che il partito democratico potrebbe dare per risolverla. In mezzo,
altri spunti: sullo stato del sistema politico italiano, sulla sinistra
e il centro-sinistra in Europa e in Italia, sul nome che si sta
consolidando e fortemente raccomando, "partito democratico", sui valori
e sui principi che questo partito dovrebbe sostenere. Si tratta di
osservazioni preliminari, semplici avvertenze per coloro che,
assumendosene responsabilità politica, dovranno effettivamente stendere
una o più bozze di Manifesto.
L'Italia a rischio declino. Primo
imperativo: tornare a crescere
Non siamo più in campagna elettorale e
la preoccupazione di essere tacciati di Cassandre non dovrebbe indurre
gli estensori del Manifesto a cautele diplomatiche: il rischio declino
è testimoniato da una massa di indicatori uniformi nel loro messaggio e
l'analisi delle sue cause si sta consolidando. In un Manifesto di
indicatori se ne devono usare pochi e ben scelti, che mostrino come il
problema non riguarda solo l'economia, dov'è evidente, ma l'intera
società : l'invecchiamento della popolazione, la scarsa istruzione, la
debolezza della ricerca, l'inefficienza di molti servizi collettivi, la
tolleranza per l'illegalità , la tendenza a rifugiarsi in difese
corporative o in settori di rendita, a difendere con le unghie e coi
denti grandi e piccoli privilegi, a evitare quant'è possibile
l'apertura alla concorrenza. E delle cause va sottolineata soprattutto
la profondità storica, rivolgendosi il Manifesto a un popolo che tende
a far risalire le difficoltà che oggi avverte a tempi molto recenti, se
non addirittura a Berlusconi. No, le nostre difficoltà erano giÃ
scritte nel fallimento del centrosinistra, nella seconda metà degli
anni '60, e nelle numerose occasioni di riscatto perse dopo di allora.
Berlusconi ha avuto il torto di sottovalutarne la gravità , di muovere
da un'analisi in larga misura erronea, di non avere attuato il
programma di liberalizzazione e concorrenza tous azimuth che pure in
parte aveva promesso: dunque di aver contribuito a incancrenire una
situazione che, prima veniva affrontata, meglio era.
Il nostro è un
grande Paese, straordinariamente ricco di risorse. Deve tornare a
crescere, economicamente e culturalmente: è questo il primo compito che
si deve porre il partito democratico. Un partito di sinistra non ha il
mito della crescita nel suo Dna, quantomeno non della crescita
economica di per se stessa. Ma un partito di sinistra riformista si
rende conto che, senza crescita, diventa molto più difficile far
prevalere i valori, la cultura, gli obiettivi sociali che gli sono più
propri. In un'economia di mercato e in una società in cui i piani di
vita sono perseguiti in modo indipendente da milioni di individui, il
ristagno comprime le possibilità di mobilità sociale, aumenta e
consolida la frazione degli esclusi, diffonde atteggiamenti di
preoccupazione e di paura, induce a difendere all'estremo anche i
minimi privilegi, corrode i legami di solidarietà . Tornare a crescere,
per una società e una economia che hanno accumulato tante storture, può
comportare sforzo, difficoltà e sacrifici. Essi non vanno negati o
nascosti. Contrastare anche quelli che sono strettamente necessari per
riattivare lo sviluppo è un atteggiamento perdente, non egemonico,
improprio per una sinistra di governo: questa deve cercare di ridurre
quanto è possibile le difficoltà per le persone con minori risorse, ma
non può rinunciare a perseguire le politiche che servono a riavviare la
crescita nel contesto nazionale e internazionale in cui effettivamente
ci troviamo. Non in altri contesti che ci piacerebbero di più, ma che
hanno il piccolo svantaggio di non esistere.
Il sistema partitico
italiano: parte del problema, non della soluzione.
E' inevitabile
pensare alla politica quando una collettività affronta gravi problemi
economici e sociali: da che altra parte può venire la soluzione se non
da un indirizzo efficace degli sforzi collettivi?
Ma la politica e le
istituzioni pubbliche sono un pezzo della società e raramente sono
"migliori" di questa: quando una società è in crisi, di solito la
politica non è un punto solido sul quale applicare la leva del
cambiamento, ma più spesso è un elemento che contribuisce ad aggravare
la crisi stessa.
Qualche piccolo margine per una buona politica esiste,
tuttavia, ed è questa la ragione per cui ci impegniamo nella
costruzione del partito democratico. Ma dobbiamo essere consapevoli che
veniamo da una lunga storia, durante la quale la politica è stata quasi
sempre un pezzo del problema, non della soluzione.
Così è stato per
buona parte della prima repubblica, specie a partire dalla fine degli
anni sessanta del secolo scorso. La peculiarità storica, in un contesto
europeo occidentale, di un partito comunista di gran lunga prevalente
sul socialista, è stata a suo modo controllata negli effetti più
dannosi mediante un'altra peculiarità storica, di origine ancor più
lontana: la grande forza di un partito appoggiato dalla Chiesa
cattolica. Il programma non può dilungarsi in un'analisi approfondita
della prima repubblica, ma almeno due punti deve affermarli con
chiarezza. Il primo è che i due grandi partiti "peculiari" della prima
repubblica, la Democrazia cristiana e il Pci, erano legati da un
vincolo di necessità , di mutua dipendenza, durante i lunghi anni della
guerra fredda: solo la Dc era in grado di impedire democraticamente
l'accesso del Pci al governo, e dunque gestire in modo civile una
impossibilità di alternanza.
Il secondo punto è che, finita la fase del
centrismo, questo peculiare sistema partitico produce esiti di governo
assai scadenti: controlla a mala pena e con grandi costi le tensioni
sociali degli anni '70 ed entra in una fase di consociativismo e
collusione alla fine di quel decennio e per tutto il successivo, anche
questa con effetti perversi sulla finanza pubblica e ostacolando la
costruzione di istituzioni capaci di sostenere lo sviluppo nel lungo
periodo.
Questi punti vanno affermati con forza perché, anche a seguito
delle deludenti prove di seconda repubblica che sinora abbiamo avuto,
un filo di rimpianto e nostalgia lega non pochi leader del
centrosinistra, ancora in servizio permanente effettivo, ai due grandi
partiti della prima.
Questo filo va spezzato e bisogna guardare in
avanti: alla prima repubblica non solo è impossibile tornare, ma è
sbagliato sperare di tornarvi, perché essa è all'origine di gran parte
dei nostri problemi attuali.
Naturalmente l'origine immediata di questi
problemi sta nel cattivo funzionamento della seconda, sta nel
bipolarismo esasperato e rissoso in cui siamo caduti dopo la grande
crisi politica dei primi anni '90: una crisi unica in Europa, che vede
la distruzione dei due partiti che in molti paesi del nostro continente
costituiscono i pilastri di governo e opposizione.
Le cose potevano
andare diversamente: la Democrazia cristiana poteva trasformarsi in un
grande partito conservatore e moderato, e dalla fusione di socialisti e
comunisti (con egemonia culturale dei primi) poteva nascere un grande
partito riformista.
Ma la storia non segue vie semplici e le
peculiarità della prima repubblica - la Dc non era tutta un "normale"
partito conservatore, i rapporti tesissimi tra comunisti e socialisti
impedirono la fusione dei due tronconi del Movimento operaio che si
erano separati settant'anni prima, e poi ci si mise di mezzo anche Mani
pulite - produssero il risultato che tutti conosciamo: la Lega, la
discesa in campo di un imprenditore politico abile e spregiudicato, la
diffusione di intense pulsioni populistiche e antipolitiche nel corpo
elettorale.
Non tutto il male viene per nuocere e un risultato
importante è stato raggiunto: per la prima volta nel nostro Paese gli
italiani tutti si sono divisi tra una coalizione di governo e una di
opposizione, queste si sono di fatto alternate nei due ruoli - in modo
rissoso ed esagitato, è vero, ma ben al di sotto della soglia di una
guerra civile, anche a bassa intensità - e dunque le premesse
elementari di una democrazia piena sono state faticosamente
conquistate.
Di conseguenza non vediamo altra via per andare avanti se
non quella di eliminare dal nostro sistema partitico quei caratteri
("esagitati e rissosi") che rendono il nostro bipolarismo e le nostre
alternanze così diverse da quelle di paesi con una democrazia più
matura di quella italiana.
Insomma, il compito che abbiamo di fronte è
quello di costruire un sistema partitico in cui la destra non si
definisca principalmente per essere "berlusconiana" e la sinistra per
essere "anti-berlusconiana", in cui si affievoliscano le lealtÃ
politiche tribali che oggi prevalgono, in cui si formi un numero
sufficiente di elettori attenti ai programmi e alle qualità di governo
offerte dai due schieramenti, che non avvertano come tradimento passare
dall'uno all'altro.
Il compito che abbiamo indicato riguarda sia la
destra, sia la sinistra, e per entrambe esso comporta la costruzione di
due grandi partiti moderati, che siano i perni intorno ai quali si
formeranno le due coalizioni di una alternanza civile. Sia a destra che
a sinistra la natura e l'urgenza di questo compito sono perfettamente
avvertite, proprio come sono avvertite le difficoltà di assolverlo.
Per
la destra il problema è il passaggio weberiano dal carisma
all'istituzione, il superamento dell'eredità berlusconiana.
Per la
sinistra il problema è la costruzione del partito democratico, il
superamento di una situazione in cui lo spazio di un grande partito
riformista è oggi occupato da due partiti di grandezza media e medio-
piccola, o da altri di stazza ancor minore. Partiti che hanno tutti le
loro buone ragioni storiche, dovute al trascinamento di lealtà ,
ideologie e consuetudini che si erano formate, e avevano senso, nella
prima repubblica. Nella seconda esse hanno un senso assai minore e al
più giustificano la formazione di orientamenti blandamente organizzati
all'interno di un unico partito, come del resto avviene in tutti i
grandi partiti riformisti (e conservatori) europei.
Lasciamo ovviamente
alla destra il compito della costruzione del partito post-
berlusconiano, ribadendo che esso è almeno altrettanto difficile,
urgente e necessario di quello che deve affrontare la sinistra. Ora è
il momento di passare alle ragioni del partito democratico.
La
sinistra riformista europea e mondiale
Prendiamo le cose un po' alla
lontana, dando un'occhiata al campo internazionale, e soprattutto
europeo, in cui il partito democratico dovrà inserirsi. Rispetto
all'"età dell'oro" - durata circa trent'anni anni, iniziando subito
dopo la fine della seconda guerra mondiale - gli anni '80 segnano un
passaggio importante, storico e ideologico.
Nell'età dell'oro la
sinistra europea è quasi ovunque riformista e socialdemocratica,
schierata con le democrazie occidentali nel grande scontro col
comunismo. Quasi ovunque, tacitamente o con aperte revisioni
programmatiche, il socialismo si sbarazza dei più ingombranti residui
del programma massimo - il "superamento del capitalismo" - che le
socialdemocrazie tra le due guerre ancora condividevano e si pone
obiettivi pienamente compatibili con un'economia di mercato e un
sistema sociale capitalistico.
Di fatto, saranno due grandi liberali,
Keynes e Beveridge, a fornire alle socialdemocrazie europee gli
obiettivi e gli strumenti che garantiranno loro uno straordinario
successo, sia come forze di governo che d'opposizione. E saranno le
istituzioni internazionali disegnate dalle potenze vincitrici e il
regime di politica economica sostenuto dagli Stati Uniti sino alla fine
degli anni '70 a creare le condizioni di contesto in cui gli obiettivi
di piena occupazione e di welfare state potranno essere raggiunti senza
soverchie tensioni.
Tutto questo cambia al volgere degli anni '70 negli
'80 e ancor più dopo l'89, dopo la fine della minaccia comunista.
Sarebbe istruttivo spiegare perché il regime internazionale di Bretton
Woods è crollato, perché la formidabile iniziativa politica e culturale
delle destre, di Thatcher e Reagan, ha avuto successo e perché le
sinistre riformiste non sono state in grado di contrastarla.
Il
Manifesto dovrà probabilmente limitarsi a riconoscere che il mondo è
cambiato dopo di allora. Che gli obiettivi che una sinistra riformista
può porsi in un paese avanzato ma di piccola stazza com'è il nostro -
rimanendo per ora lontana la prospettiva di un'Unione europea come un
reale soggetto politico unitario, almeno in materie come politica
estera e difesa - sono diversi da quelli dell'età dell'oro. Che
strumenti come quelli di deregolazione, privatizzazione,
liberalizzazione, concorrenza, competitività , flessibilità , adattamento
strutturale sono ormai parte della scatola degli attrezzi della
sinistra, se questa vuole essere forza di governo. Guardiamoci intorno:
quasi ovunque le sinistre riformiste hanno cambiato strategia.
Qualcuno
dirà : si sono adattate alla situazione e hanno ridimensionato i loro
obiettivi. E' senz'altro così, ma non è solo così.
Affrontare un nemico
ideologicamente agguerrito, non più succube di quella koiné statalista,
assistenzialista e keynesiana che nell'età dell'oro condividevano
tutti, sia conservatori che riformisti, ha indotto le sinistre
riformiste ad abbandonare residui ideologici che si trascinavano
appresso per pigrizia, a confrontarsi seriamente col pensiero liberale,
a riscoprire in esso ragioni che la sinistra poteva far proprie.
La
grande novità di questi ultimi dieci anni è proprio la sinistra
liberale e l'abbandono, non più opportunistico, ma consapevole e di
principio, degli ultimi residui classisti della tradizione del
movimento operaio anche da parte di partiti che ancora si chiamano
socialisti, laburisti o socialdemocratici. Blair, Schröder, Zapatero
non sono socialdemocratici in alcun significato storicamente e
ideologicamente preciso del termine: sono dei liberali di sinistra. E i
riferimenti culturali e ideologici loro e dei loro partiti sono Sen,
Rawls, Dworkin, Bobbio, Walzer - per menzionare solo i più noti in
Italia -, teorici tra loro assai diversi ma tutti iscrivibili nella
grande tradizione liberale.
L'eccezione più importante è costituita dal
partito socialista d'oltralpe, per il quale la parola liberal quasi
equivale a un insulto: ma questo ha a che fare più con l'eccezionalismo
culturale dei francesi che con vere differenze di strategia politica.
Insistiamo su questa novità , sulla critica e l'abbandono dei residui
classisti e marxisti nella sinistra d'origine socialdemocratica, perché
questo ritorno alle origini prepara un terreno d'incontro favorevole
con altri filoni della sinistra riformista, minoritari di solito, ma in
alcuni paesi assai importanti.
Alcuni di essi - repubblicani, liberali,
ambientalisti - il terreno liberale non l'avevano mai abbandonato.
Altri - ci riferiamo ai riformismi con forti connotazioni religiose, e
soprattutto a quelli ispirati alle dottrine sociali della Chiesa
cattolica - perché con il liberalismo si erano da tempo parzialmente
riconciliati. Insomma, dal punto di vista delle radici culturali
profonde nulla osta ad una fusione politica di correnti riformistiche
che in passato si erano divise, o addirittura combattute.
Il peso del
passato: tre trappole da evitare...
La prima trappola l'abbiamo appena
menzionata, parlando di fusione dei diversi riformismi. Guai se ai
lettori del Manifesto resterà in mente che la principale
giustificazione del partito democratico è la "fusione" (o, ancor
peggio, la "contaminazione") dei diversi filoni del riformismo
italiano.
La possibilità di fusione, la presenza di un ampio terreno
liberale comune, la condivisione di pezzi significativi di diverse
tradizioni, sono cose assai importanti, specie per le élites politiche
e i militanti dei partiti, che in queste diverse tradizioni sono stati
allevati. (Lo è assai meno per la gran massa dei cittadini, anche per i
segmenti più colti e appassionati di politica).
Ma basta un momento di
riflessione per rendersi conto che si tratta di una condizione non
ostativa, di una condizione permissiva: non si tratta della ragione
profonda, della ragione storica, che ci induce a metterci insieme per
costruire il partito democratico.
Essa ci dice che dal passato non
vengono impedimenti insuperabili, vuoi perché alcune delle tradizioni e
lealtà che nel passato erano vitali hanno esaurito la loro funzione
storica; vuoi perché, se ciò non è vero, esse possono continuare a
svolgerla nel nuovo partito.
Ma non ci dice niente del futuro.
Limitarsi alla fusione/contaminazione è come identificarsi coll'Angelus
Novus: travolti in avanti, colla faccia rivolta all'indietro.
Negli
anni scorsi, in molti appelli per l'Ulivo e il partito democratico,
abbiamo insistito molto, forse troppo, sul problema della compatibilitÃ
dei riformismi del passato. Ma ci rivolgevamo al ceto politico.
Con il
programma ci rivolgiamo al Paese, e al Paese bisogna parlare di futuro.
Il passato pesa, però, e si manifesta in molti modi. Uno dei modi, ed è
la nostra seconda trappola, riguarda la continua incertezza sullo
spazio politico del partito democratico: sinistra o centrosinistra?
Se
chi insiste sul termine centrosinistra vuol solo segnalare che la
componente maggioritaria del nuovo partito persegue un disegno politico
riformistico-liberale, non dissimile da quelli di Blair o di Schröder
(o di Zapatero, se lo si studia bene); se vuole segnalare che nel suo
nucleo devono essere presenti i valori e le culture del riformismo
cattolico o di altri riformismi moderati del centrosinistra; se è solo
per questo, allora può benissimo rassegnarsi a parlare di sinistra.
E'
questo che avviene nei paesi in cui si è solidamente istallato un
sistema politico bipartitico o bipolare, dove non ha senso parlare di
centro.
Si tratterà ovviamente di una sinistra moderata e spesso
avverrà che tra le componenti maggioritarie di sinistra e destra ci sia
più consonanza che con i piccoli partiti estremi che hanno assemblato
nelle loro coalizioni.
Anche un bambino sa, tuttavia, che non sono
questi i motivi per cui alcuni esponenti di Margherita insistono tanto
sull'espressione "centrosinistra". I motivi sono altri: in parte è
l'affezione per il centrismo della vecchia casa democristiana; in parte
è il legittimo orgoglio per aver tenuto ferma la barra del timone su
alcuni temi cruciali di politica economica e di politica culturale, dal
rifiuto del collateralismo con organizzazioni economiche e sindacali ad
una posizione laica ma non laicista; in parte è il timore di un ceto
politico di farsi fagocitare da un ceto politico più forte; in parte, e
forse si tratta della parte maggiore, è l'indisponibilità a confluire,
in Europa, in un partito socialista ancora troppo affezionato alle
proprie tradizioni, anche se di fatto ha cambiato pelle.
Si tratta di
motivi di resistenza, tutti, più che legittimi, e ai quali dev'essere
data una risposta più che generosa.
Alle soglie della costruzione del
nuovo partito, tuttavia, insistere troppo su un'espressione che non ha
senso in un sistema politico bipolare può essere fonte di confusione:
non è il bipolarismo, un bipolarismo civile, uno dei principali
obiettivi politici del nuovo partito? Parlando di centro, si vuole
forse lasciare aperta la strada per uscire dal bipolarismo?
Proprio
perché uno schieramento di sinistra moderata può affrontare momenti
eccezionali, in cui per il paese possono essere indispensabili governi
tecnici o di grande coalizione - ciò è appena accaduto in Germania -
non deve esserci dubbio alcuno che l'orientamento di fondo di tutte le
componenti del partito è uno di sinistra: moderata quanto si vuole, ma
iscritta fermamente in una logica bipolare. Crediamo dunque che sarebbe
opportuno che queste incertezza venissero dissipate il più rapidamente
possibile.
Così come deve sparire al più presto ogni incertezza sul
nome del partito, e qui ci rivolgiamo ai Ds, come prima ci eravamo
rivolti a Margherita: è la nostra terza trappola che proviene dal
passato.
Che cos'è questa continua riproposizione del nome "partito
riformista"? Il nome "riformismo", e il suo aggettivo, o non hanno
alcun significato discriminante, o ne hanno uno del tutto improprio.
Ogni partito, di destra, sinistra o centro, propone riforme, riforme
diverse naturalmente: neppure i conservatori più incalliti hanno il
coraggio di sostenere che intendono lasciare le cose esattamente come
stanno.
Dunque "riformismo" non vuol dir nulla. Voleva invece dire una
cosa ben precisa nella lunga vicenda storica del socialismo, dove
"riformista" si opponeva a "rivoluzionario" e in quella vicenda ha
avuto almeno due versioni: chi la rivoluzione non voleva farla adesso
ma riconosceva di doverla fare in un (più o meno lontano) futuro o in
circostanze che la rendessero inevitabile; e chi la rivoluzione non
voleva farla mai.
Donde contorsioni patetiche: chi non ricorda la
riluttanza del Pci, fino a tempi piuttosto recenti, a definirsi come
partito riformista preferendo il termine - del tutto identico - di
riformatore? Ma chi vuol farci ripiombare in questa vecchia storia?
Dunque, partito democratico. Non perché è il nome di un grande partito
americano. Ma perché ha un significato profondo, chiarissimo, sempre
attuale e incarna alla perfezione le ragioni per cui vogliamo costruire
un nuovo grande partito.
...e un valore da esaltare: la democrazia.
La
democrazia è un compito mai finito e anche i regimi più "democratici"
che oggi conosciamo sono ben lontani dall'ideale: un ideale di
cittadini colti e informati, in condizioni di buona sicurezza economica
e dunque con il tempo necessario da dedicare alla politica, che
confrontano un potere pubblico trasparente e media indipendenti e
molteplici, che dibattono seriamente una pluralità di opinioni e
dispongono di molti strumenti per controllare l'esercizio dei poteri di
rappresentanza, e soprattutto dei poteri di nomina che i rappresentanti
hanno e di cui spesso abusano.
Non è un obiettivo abbastanza di
sinistra? Lo è, e sarebbe addirittura un obiettivo rivoluzionario, se
si volesse raggiungere subito l'ideale cui abbiamo accennato: meno male
che c'è un pizzico di cautela e riformismo (nel senso di "migliorismo")
a trattenerci.
Scherziamo, ma solo per rendere più evidente l'idea che
nel nome di democrazia c'è già dentro tutto quanto possiamo
desiderare.
Ma se la democrazia è il nostro valore politico
essenziale, bisogna essere consapevoli che esso dev'essere praticato
cominciando da casa nostra, dal nostro partito. Sia il processo
attraverso il quale si costituirà il partito democratico, sia lo
statuto del partito, devono essere coerenti con un disegno di massima
partecipazione e di controllo democratico sulle decisioni di chi ci
rappresenta: l'insistenza sulle primarie laddove sono praticabili, la
trasparenza massima richiesta nei processi di nomina che i nostri
politici controllano, sono solo due aspetti della vera rivoluzione
democratica che siamo chiamati a realizzare.
Sarebbe tragico - più che
un crimine, un errore - se il partito democratico che vogliamo
costruire lo costruissimo con i metodi e lo gestissimo con gli statuti
antidemocratici (di fatto, se non sulla carta) dei partiti che
conosciamo.
E la pratica che intendiamo attuare a casa nostra
dev'essere conforme con le proposte che facciamo per riorganizzare il
sistema politico del nostro Paese, dalle leggi elettorali alla riforma
costituzionale. Uno scandalo antidemocratico come quello che è
conseguito alla legge elettorale attualmente in vigore, con candidature
totalmente delegate a ristrette oligarchie - chiamarle partiti è un
offesa a questo nome glorioso - non deve più ripetersi: che si debba
tornare a un sistema elettorale uninominale, e con candidature scelte
attraverso primarie, è la proposta minima sulla quale il nostro partito
deve spendere le sue energie.
Come dovrà spenderle, nel proseguire un
processo di riforma costituzionale dopo la schiacciante vittoria dei No
nel referendum di domenica e lunedì scorsi.
Nel centro-sinistra sta
diffondendosi una reazione conservatrice (come se il popolo avesse
detto No a qualsiasi proposta di riforma), una tendenza ostile a una
democrazia governante a livello nazionale e al suo radicamento in
efficienti istituzioni regionali e locali. Credo che il Manifesto debba
opporsi esplicitamente a queste tendenze e reazioni.
(1-continua)
da www.ilriformista.it
|
|
 |
|
 |
I commenti degli utenti (Solo gli iscritti possono inserire commenti)
|
 |
|
|
|
 |
|