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La dignità dell’essere cristiano
2.07.2006
di Luisito Bianchi* / Viator -

È un libro che, una volta terminato, si ricomincia dalla prima pagina, proprio dall’introduzione, ampia e documentata, stesa da persone che ne hanno vissuto la gestazione nei travagliati anni 1960-64, ossia dalla stesura del primo capitolo, fino alla definitiva censura da parte del potere religioso, addirittura a distanza di un anno dalla pubblicazione della Pacem in Terris di Giovanni XXIII. Mi riferisco al libro del monaco cistercense Thomas Merton, apparso in America solo nel 2004, a più di 40 anni dall’explicit dell’Autore, e pubblicato in traduzione italiana l’anno successivo a cura di Barbara Paoli e di Guido Dotti nelle edizioni Qiqajon della Comunità monastica di Bose. Il titolo è lo stesso che Merton aveva scelto se il libro fosse stato allora stampato: La pace nell’era postcristiana. Viator nel numero di marzo ne ha diffuso un ampio estratto del cap. IV: Il cristiano come pacifista. Penso che tale inserto, senza commento o nota introduttiva, costituisse il più caldo invito a leggere con attenzione tutta l’opera. Io l’avrei accolto, come altri, penso; ma l’avevo già tra le mani per una presentazione che m’era stata chiesta a titolo d’amicizia, pur sapendo che non avevo nessuna competenza, dico di scienza e di studio, sugli argomenti della pace e della vita monastica, giacché si trattava pur sempre d’un monaco di vita contemplativa (conservo, almeno per il momento, questa divisione fra vita contemplativa e vita attiva), o forse appunto per questo. E mi capitò una cosa molto strana, almeno per me: che all’interesse per il contenuto del libro, e più ancora per le vibrazioni che tale contenuto veicolava, si univa, preponderante, quello per l’autore e per le motivazioni che lo avevano spinto, di proposito o di necessità, a passare dagli argomenti di vita cosiddetta spirituale (di cui era, dopo La montagna dalle sette balze, maestro ricercato, atteso e ascoltato), ad un argomento in cui anche ogni riflessione di tipo “spirituale” che vi si introduceva, per aver presa, si sarebbe dovuta calare nella terra.
Avevo letto di lui, quando uscì in italiano da Garzanti (1949), l’anno prima d’essere ordinato prete, solo La montagna, coi suoi sette gironi ascensionali come nel Purgatorio dantesco. Non ne dovetti riportare una grande impressione se me ne rimase uno sbiadito ricordo solo per due osservazioni piuttosto argute, senza nessuna spinta, giunto sulla cima, a proseguire anche solo al primo cielo, dal titolo piuttosto ghiotto come Semi di contemplazione, uscito a due anni di distanza. Quale dunque fu la mia sorpresa nell’imbattermi in un monaco che affrontava un tema squisitamente politico come la pace calata nelle contraddizioni dell’epoca e dei tragici problemi che l’angustiavano nella loro precarietà, quando un contemplativo avrebbe dovuto parlare della pace interiore e della preghiera come mezzo sovrano per impetrare la pace anche politica.

*(Nato a Vescovato (Cr), attualmente svolge funzione di cappellano presso il Monastero di Viboldone (Mi). Ha scritto numerosi libri tra cui La messa dell’uomo disarmato, opera di altissimo valore artistico e civile)

Potrete leggere la continuazione di questo intervento nel numero di giugno in edicola oppure chiedercela mediante e-mail al seguente indirizzo: redazione@viator.it

Fonte: http://www.viator.it/HTML/teologia.htm

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