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«Il miracolo, chiamato Lithos»
9.09.2006
Veronica Tomassini / La Sicilia.

Settembre ci ha raggiunto velocemente. Toccava ad agosto, almeno, dare a Cesare quel che è di Cesare, cioè un'estate di gossippate, di danze caraibiche, di rum e salsa, di paillettes e feste privatissime. Volevamo almeno uno scandalo, una notte brava da raccontare, una defaillance dal mondo dorato, una sconcezza qualsiasi, una stagione di eccessi insomma.
E invece ci siamo seduti in pantofole, davanti ad un pezzo di mare, più o meno ogni sera, sulla panchetta-zen della Marina, la solita in fondo, l'ultima sulla sinistra. Abbiamo riflettuto su alcuni perché. Tipo: perché d'abitudine tra noi e il turista c'è di mezzo un bed & brekfast, una bici a noleggio, una zuppa di cozze?
Nei bagni di Rimini si fa comunella sotto l'ombrellone, i ragazzini sperimentano le prime cotte con coetanei oriundi, le mamme gesticolano con la dirimpettaia neozelandese, arrivando persino a rimpiangere l'abbecedario dell'esperanto.
Da bravi provincialotti, contiamo sulle mani le occasioni mancate e intanto ci volgiamo le spalle, noi e l'altro, il tizio con lo zainetto che, per quanto ci riguarda, potrebbe pure essere di origini giamaicane, a noi non importa. Perché?
Ci domandiamo con la bile nelle orecchie, perché dobbiamo essere isola sempre? Cosa manca? Pensate che crucci, nelle notti di mezza estate, quando anche nonna Belarda va in cerca di trasgressione.
Noi no. No, no, noi stiamo lì a meditare sul sesso degli angeli, in ciabattine, palliducci, detonificati, astenici. C'è stato un festival, a Siracusa, c'è stata una rassegna d'arte in latomia (qualcosa di simile), poi non ricordiamo, vabbé non è determinante.
Se non fosse per un fatto: una specie di apoteosi, una celebrazione taumaturgica del talento che ha contagiato ogni signor nessuno del caso, ha lacerato il cielo di Ferla.
Una lunga scalinata, l'austero convento, la casina accucciata sotto l'ala di Orione, una spruzzata di luna, il patriarca Carlo Muratori. Quindi: tammuriate e tarante, pizziche e sonate balcaniche.
Con gli occhi ancora lucidi abbiamo in mente il paesello, Lithos, l'invasione di giovani della comune, i tamburelli, la carne al fuoco, l'aria fredda di montagna, un buon bicchiere di vino rosso. Tremendamente scossi dalla potenza della musica, abbiamo incocciato la purezza, la nobiltà delle piccole cose, dentro il sorriso di un anziano, in una fisarmonica, in un battito di mani, in una veste a balze, in una nenia di pronipoti sinti del Molise. “Tirli, tirli, jek, dui, trin, star…”.
Boh, era romanés. Ma era una gran caciara, un parossismo di spiriti desti finalmente che aleggiava sui gradini di un monastero.
Potrebbe separarci una galassia intera, tra noi e il miracolo, chiamato Lithos, che frappone tornanti e trazzere, muri a secco e mandrie di mucche.
Ed è facile scoprire altri pianeti, l'alternativa a noi, ad esempio una donna che suona l'armonica, che cura il pianoforte come un pargolo, che segue il patriarca con amore, partecipando all'epifania giocosa. Allevando le sue piantine, cogliendo i frutti maturi nell'orticello davanti casa, nella campagna di Tremilia. Maria Teresa Arturia è l'altra faccia del miracolo, braccio destro dell'infaticabile Muratori.
Questo è l'ultimo scampolo di estate che abbiamo rubato e conservato, l'unico degno di nota, sapendo bene che la provincia ha prodotto, eccome, molto più che la nostra presuntuosa Siracusa, piegata su blasoni passati, raffermi oramai, pigra e refrattaria alla rivoluzione che poi è l'idea.
Di norma, ma non sempre. E noi, non abbiamo paura delle idee.
Lithos appartiene a Ferla perché il borgo sugli Iblei ha avuto coraggio. A noi sarebbe dovuta bastare una regata di vele. Per niente.
Vogliamo vedere i figli della comune e un marranzano che ritma il tempo di una canzone popolare, non temiamo l'avanguardia delle nostre radici (eh sì, la tradizione rompe gli argini, meglio che un concerto di acid rock), nemmeno se qualcuno avesse voglia di spacciarla per retrovia. Per questo torniamo mogi alla nostra panchetta-zen dove tutto scorre controvoglia, dove pure il miglior tramonto d'Europa preferisce l'indaco al pastello, quando proprio ne ha piene le tasche di nafta e tramestio di zoccoletti, di noia gracchiante e noccioline.
L'asettica urbanizzazione, la maschera metropolitana che indossiamo, ogni mattina, dopo il caffé, ha cancellato il sorriso semplice degli uomini solidi, che noi stentiamo a riconoscere in un funzionario, in un agente in corsa, con borsa, in borsa.
Tornando ai perché. Chi siamo, noi? Siamo i “lavuratura” di Rosa Balistreri?
Sì? Oppure figuranti di cera che sbadigliano al vernissage di manufatti concettuali-astratti-criptici, inutili? Ribadendo che “però è davvero interessante l'iconoclasta dell'iconografia, con la campitura e le tonalità” e quattro bla a seguire, perché ci stanno, ché tanto il risultato è uguale.
Quante parole signori che non servono a nulla, se non ad intristirci, perdendo il profumo della terra bagnata, di lumachine in brodo, di spiedini di agnello.
Quanta nostalgia, signori. Settembre arriva scoprendoci ombrosi, mesti come una pioggia d'autunno che anticipiamo per coerenza morale.
Piove dentro e fuori di noi, a volte. Non è così? E tuttavia occorre poco per tornare allegri, una partitura frenetica, quella degli Acquaragia Drom, per dirne una, il loro caos sonoro, la vita urlata o rauca nella voce del solista, Ciricillo, ultimo discendente dei caminanti di Sant'Elia.
Gessato e feltro di paglia, baffi ruvidi, e ciglia folte. E' un brivido, miei cari, che sentiamo scendere come la notte di settembre, decisa e rapida. Aspettando l'autunno.
Veronica Tomassini

Fonte: http://www.lasicilia.it/giornale/0909/SR0909/SR/SR02/navipdf.html

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