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Il referendum che verrà (di Stefano Ceccanti)
14.09.2006

Ha ragione Prodi a ripeterlo spesso. La legge elettorale è davvero una priorità. La convergenza dei parametri europei a cui siamo chiamati con la Finanziaria non è un´altra cosa, non è solo un dato economico, ma investe anche le regole istituzionali che sono alla base delle decisioni che devono farci convergere. Nessuna grande democrazia può permettersi di votare con sistemi come il nostro che incentivano artificiosamente la frammentazione, che rendono difficile la stabilità di governi di legislatura, che allontanano eletti ed elettori.

Dove troviamo esecutivi di coalizione con più di 2 o 3 partiti, privi di un baricentro costituito da una forza politica che struttura la propria coalizione prendendo più di un terzo di voti, dove riscontriamo liste bloccate lunghissime che rendono inconsistente la rappresentanza? Semplice: da nessuna parte. Si tratta di anomalie pesanti che nessuna forza seria può evitare di affrontare e di rimuovere. È anche stucchevole il dibattito astratto su quando cambiarla: più riteniamo che sia disastrosa, meglio è cambiarla prima possibile, senza nessuna conseguenza meccanica sulle elezioni successive.

A questo ragionamento vengono opposte subito due pregiudiziali. La prima è quella «volontaristica»: molte di queste cose sarebbero raggiungibili sulla base di sole decisioni politiche; non si potrebbe chiedere alle regole di darci sul piatto d'argento un bipolarismo europeo. L'obiezione ha una parte di verità: infatti non bisogna porre per la nascita del Partito Democratico la precondizione di cambiare le regole. Vale quanto fatto alle Camere per la nascita dei gruppi dell'Ulivo: dal momento che si era convinti della loro importanza, prima si sono costituiti i gruppi unitari a regole invariate ben sapendo di rimetterci economicamente (perché le regole incentivavano la frammentazione) e poi, forti di quella decisione politica, si sono contrattate nuove regole coerenti con la spinta aggregante. Si è fatta una battaglia, senza autocensure preventive. L'obiezione è però fondamentalmente errata: le regole non sono mai neutre e chi si propone di aggregare non può certo fare come Penelope, costruendo di giorno una tela da disfare la notte, consentendo cioè che i bisogni a cui vuole rispondere sul piano politico con decisioni unificanti siano poi penalizzate da incentivi istituzionali alla divisione. La seconda pregiudiziale la si può definire del «quieto vivere»: dato che il tema porta dei conflitti dentro la maggioranza di governo perché complicarsi la vita con problemi ulteriori rispetto a quelli, non pochi e molto seri, che già abbiamo? Qui vi sono almeno due repliche. Anzitutto il «quieto vivere» non c'è comunque e proprio a causa delle leggi elettorali vigenti che obbligano ciascuna forza della coalizione, soprattutto le più piccole, a creare conflitti, a marcare differenze in modo esagerato per presidiare lo spicchio di mercato elettorale a danno dei vicini. Non si tratta quindi di introdurre un elemento di divisione dove regna l'armonia, ma di ridurre le cause che provocano la maggior parte degli attuali conflitti. Ancor più decisiva è l'ulteriore replica: nella società ci sono soggetti che non possono essere bloccati in nome del «quieto vivere» interno al Palazzo e c'è uno strumento che si presta ad essere utilizzato per rimuovere i veti, il referendum abrogativo. Il costituzionalista Giovanni Guzzetta ha elaborato due quesiti ammissibili dalla Corte costituzionale perché ne rispettano i rigorosi criteri, quelli secondo cui la legge risultante dall'abrogazione deve essere auto-applicabile, a prescindere dall'eventuale intervento del Parlamento. Il primo, che elimina le coalizioni, rappresenta un fortissimo incentivo contro la frammentazione: il premio di maggioranza, così come nei Comuni sotto 15.000 abitanti andrebbe alla prima lista e non più a una coalizione; resterebbero in piedi gli sbarramenti seri, il 4% nazionale alla Camera e l'8% regionale al Senato, eliminando quelli ridicoli (2% con recupero del migliore escluso alla Camera, con cui ha avuto seggi e un gruppo parlamentare la lista Dc-Nuovo Psi con lo 0,7%, e 3% al Senato). Il secondo elimina le candidature multiple che determinano la scelta di molti degli eletti persino dopo le elezioni. Intorno a questi quesiti, che non realizzano una legge perfetta soprattutto perché resta scoperta l'esigenza di un ritrovare col collegio uninominale un rapporto tra l'eletto e l'elettore, ma che la migliorano notevolmente, si sta creando un tam tam di consensi intellettuali e civili, a partire dall'Associazione per il Partito Democratico e dai convegni ulivisti previsti a fine mese, che i media non notano ancora, ma che potrebbe rivelarsi sorprendente nelle prossime settimane perché il vulnus vissuto dagli elettori non è stato dimenticato e le difficoltà delle coalizioni legate alle nuove leggi sono sotto gli occhi di tutti. Bisogna anche chiedersi quanta della partecipazione al referendum di giugno non sia stata anche una protesta contro le nuove leggi elettorali. Resta incerto il quando del ricorso allo strumento referendario, che va sempre maneggiato con cura, soprattutto quando è previsto un quorum, ma un nuovo movimento referendario sta già nascendo. Chi non se ne accorse per tempo nel 1991 pagò un prezzo politico molto alto. Nessuno immagina che la spinta dal basso sia risolutiva; di un intervento parlamentare ci sarà bisogno purché coerente con la logica del quesito, che mira a stabilizzare il nostro bipolarismo depurandolo dalla frammentazione. Le soluzioni compiute possono essere diverse, a partire dal doppio turno di collegio, che resta di gran lunga il sistema migliore Certo non lo sarebbe invece il richiamo al sistema tedesco che, anche ammesso e non concesso che funzioni bene in Germania (dove ha prodotto la Grande Coalizione), man mano che viene declinato dai suoi sostenitori italiani diventa sempre meno tedesco e sempre più dannoso: così si parla di sistema tedesco senza aggiornare i poteri del governo (che in Germania vede il Cancelliere sulla base dell'art. 68 della Costituzione poter richiedere e ottenere lo scioglimento anticipato, come accade dal 1972 con Brandt fino al 2005 con Schroeder), si parla invece di inserire le preferenze (che lì nessuno ha mai pensato di introdurre perché distruggerebbero i partiti e favorirebbero la corruzione, mentre sono previste norme democratiche per scegliere prima del voto i candidati in collegi uninominali e in liste bloccate corte) e di uno «sconto» sullo sbarramento (le ultime volte che si è iniziato così alle nostre Camere per la legge sul Parlamento europeo si è scesi man mano, rifiutando persino l'1%). Più vengono lanciate queste cortine fumogene per non cambiare niente o per introdurre modifiche che peggiorerebbero persino la legge attuale (e ce ne vuole), più, per reazione, si avvicinerà la spinta a superare i veti incrociati col ricorso ai quesiti che già ci sono. Pronti per l'uso. Nel migliore dei casi un uso deterrente contro i veti, capace di azionare con la sua stessa minaccia o con l'uso effettivo delle firme da raccogliere una riforma parlamentare seria; nel peggiore un'arma effettiva. In poche settimane i principali soggetti politici saranno comunque chiamati a prendere posizione, senza potersi riparare dietro un generico rinvio alla volontà politica o al quieto vivere.


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