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*Gomorra* di Roberto Saviano
18.09.2006
Marco Lodi Rizzini intervista il giovane autore - da www.fuoricentroscampia.it

Non sarebbe giusto confinare Gomorra (Strade Blu Mondadori, euro 15,50, pp. 331) nell’ambito nobile ma angusto della letteratura. L’esordio del ventiseienne Roberto Saviano miscela molte cose insieme: coraggio, rabbia, passione civile, amore per la terra, potenza evocativa della parola. Non è mai facile per un libro muovere le coscienze, tanto più in tempi di etica bonsai come i nostri. Saviano ci riesce facendosi cronista, sociologo e investigatore, ma senza rinunciare mai allo sguardo empatico dello scrittore. Il metodo è l’infiltrazione poliziesca nei sacrari della camorra per mapparne le dinamiche e setacciare il brodo di coltura del crimine organizzato che si fa Sistema imprenditoriale.

Il racconto è scandito in episodi narrativi che vivono di una loro autonomia, pur formando una galassia coerente e circolare. Per calarsi nell’ambiente, Saviano svolge lavori occasionali come bracciante al porto di Napoli, la fessura dove la mafia cinese si salda con i clan; frequenta le fabbriche fantasma del tessile di Secondigliano; segue la faida di Scampia sintonizzando uno scanner da detective sulle frequenze della polizia e precipitandosi sui luoghi della mattanza; si insinua nei clan dei palazzinari di Casal di Principe; dialoga con i mediatori di morte che traghettano i rifiuti tossici del Nord verso il triangolo Villaricca-Giugliano-Qualiano tra Napoli e Caserta.

La chiave artistica della tragica bellezza di Gomorra sta nella sua schizofrenica e frammentaria modernità, nella capacità trasformistica di essere al contempo documento e romanzo noir, inchiesta e invettiva, cronaca quotidiana e saggio di economia. La sua dirompente freschezza sta nel rappresentare ritratti e vicende reali che si stampano nella memoria come icone paradigmatiche di un intero mondo. Come Pasquale, l’operaio tessile di Secondigliano che un giorno guardando la sfilata degli Oscar in tv scopre che l’abito appena cucito con le sue mani per pochi euro era destinato ad Angelina Jolie e per l’avvilimento cambia mestiere. Come Mariano, il giovane camorrista laureato stregato dal Kalashnikov e spedito in viaggio premio in Russia a conoscere il suo inventore. Come Cosimo Di Lauro, il boss che si atteggia all’eroe del film The Crow e la cui foto campeggia sui telefonini dei giovani di Scampia quasi fosse una rock star. O come don Peppino Diana, il prete-coraggio che la camorra sotterra prima col piombo delle pallottole, poi con quello dei giornali dai quali viene dipinto come colluso e donnaiolo.

Questo bestiario tragicomico, umanissimo, si innesta su una miniera documentale imponente, frutto di anni di ricerche e frequentazioni, con uno sforzo investigativo immane. È proprio con questa martellante ricerca delle prove condotta in solitudine e con mezzi di fortuna che Saviano inchioda le istituzioni alle proprie responsabilità e capovolge la celebre requisitoria pasoliniana sul malaffare: io so e ho le prove. È un annuncio che risveglia le coscienze e invoca un nuovo Meridionalismo finalmente maturo e consapevole.

Per quanti anni hai covato Gomorra?

La raccolta scientifica si è estesa su un arco di sei anni, mentre la scrittura ha preso due anni. Ma in realtà, ci ho pensato da sempre. Da quando ero adolescente. La mia esperienza personale vissuta tra Napoli e Caserta è diventata materia letteraria. Erano storie gigantesche, lette fin qui in chiave localistica. Ma è evidente che quello che racconto non riguarda solo Napoli, ma l’Italia tutta intera.

Non hai paura di finire come Giancarlo Siani, il cronista del Mattino di Napoli freddato dal clan Nuvoletta nel 1985?

La paura fa parte del gioco. Ho molta paura quando ricerco sul campo. Mi capita di espormi troppo, di varcare il limite della temerarietà. Quando scrivo, invece, non ho paura perché avere paura sarebbe come censurarsi, evitare di guardare la Gorgone in faccia. Ho più paura dell’isolamento, dell’indifferenza. O di quelli che pensano che infango la mia terra. Il miglior vaccino contro la paura è la rabbia.

Come spieghi il successo istantaneo del tuo libro?

Ci sono due motivi. Il primo è che si tratta di un tema sostanzialmente sconosciuto e però così presente, con tremilaseicento morti dal 1980, l’anno in cui sono nato. Il secondo motivo è l’ibrido, il romanzo no-fiction. La sfida era quella di riuscire non solo a comunicare ma anche e soprattutto a esprimere. Insomma, non ho voluto rinunciare alla scrittura. Avrei potuto scrivere un saggio, ma non l’avrebbe letto nessuno. Comunque, il fatto strano è che il mio libro ha avuto successo, ma non ha fatto scandalo.

Si scorge sotto traccia una sorta di fascinazione per quei protagonisti della guerra di camorra che tu definisci samurai liberisti. Un riflesso involontario?

Non lo so. Dovevo andare a fondo e lo strumento irrinunciabile per capire il successo culturale e sociale dei boss era la compenetrazione, la partecipazione. I manager che scommettono la vita e per ciò stesso diventano riferimento dei ragazzini acquistano uno spessore mitico. Se cedo alla fascinazione, non me ne faccio un problema. Voglio far capire quanto ci stiamo dentro. E per farlo devo calarmi nei loro panni.

Nelle cronache nazionali della faida di Scampia tu vedi quella che chiami l’estetica della suburra napoletana. A chi giova questa suburra? Credo sia un atteggiamento inconsapevole che deriva dalla scelta di puntare i riflettori su Napoli soltanto per le emergenze. Non c’è dietro un progetto preciso. Certo, raccontare il ghetto è più facile, perché è lì sotto gli occhi di tutti. Più complesso è considerarlo come un laboratorio di imprenditoria criminale, un territorio privilegiato per capire i vettori della nostra economia. Invece, si preferisce guardare la realtà con un occhio zoologico.

Il rapporto tra gli affiliati di camorra e quelli di mafia è di 5 a 1. Allora perché nell’immaginario popolare i camorristi sono considerati i parenti straccioni?

Perché la camorra ha scelto il profilo basso. Eppure, l’Osservatorio sulla camorra ha censito una struttura criminale fatta di 50 mila uomini, mentre quella militare sarebbe di 6500. La mafia in Sicilia si pone come un antistato che colonizza la politica. La camorra invece punta sull’integrazione. Quando Totò Riina chiede negli anni Novanta al clan camorrista dei Nuvoletta di partecipare alla stagione intimidatoria delle bombe, il capoclan risponde: no, è un favore fatto ai politici. In questo rifiuto c’è tutta la differenza. Ma anche l’enorme potere di chi si permette di dire di no al capo della cupola. Questa distinzione non è in contraddizione con il fatto che negli ultimi anni ben 71 comuni campani siano stati sciolti per infiltrazione mafiosa. Tra questi Melito, dove il sindaco della Margherita Alfredo Cicala è coinvolto in un omicidio di camorra. Se fosse successo a Palermo se ne sarebbe parlato per mesi.

Perché si sceglie la camorra? Il movente è sempre la miseria?

Sì e no. Esiste una camorra stracciona, quella dei furti, che spesso agisce per miseria, mentre i pusher di Secondigliano spesso non sono nemmeno affiliati. Si sceglie per avere una prospettiva di crescita: avere potere, negozi, fare business, diventare imprenditori criminali. E lo si fa avendo coscienza che è sempre, senza eccezioni, una scelta di morte, un grumo di anni di vita. Ma sempre meglio di quella che viene vista come una vita di fatica senza dignità, sudore senza ricompensa. La camorra è meritocratica...

Bocca sostiene che la camorra è una questione etnica. Sei d’accordo?

Bocca chiama camorra il microcrimine. E sbaglia. La camorra oggi ha deciso di non sobbarcarsi più la miseria di migliaia di sottoproletari, Raffaele Cutolo ha fallito per questo. La camorra non è piramidale come la mafia, è orizzontale sul territorio. Chiunque può organizzare un clan e mettersi in affari. La camorra é liberista.

Come può tanta visibilità restare impunita? Arresti e denunce ci sono. La macchina della polizia e della magistratura ha una sua efficienza. Ma questo non muta il quadro. Ogni volta che un clan viene decapitato altri dieci prendono il suo posto, come è successo dopo la faida di Secondigliano. Il fatto è che il sistema camorristico si attiva, con guadagni enormi, ogni volta che ci sono settori economici lasciati sguarniti dalla società civile. Succede nello smaltimento dei rifiuti, un problema che la politica non riesce a risolvere. È sconfortante. Più in generale, la lotta alle mafie è scomparsa dalla propaganda politica nazionale su entrambi i fronti. L’ultima campagna elettorale è durata un anno, ma la parola mafia non è mai stata pronunciata.

Tredici anni di governo locale della sinistra non hanno fiaccato la camorra. Come lo spieghi?

La parola d’ordine di Bassolino, appena insediato, è stata: niente affari con la camorra. Ma il clima iniziale si è presto dissolto e ora la realtà è molto diversa. Il clan Zagaria ha costruito il raccordo tra Giugliano e Teverola, la base Nato di Licola, ha negoziato appalti in Emilia Romagna e Lombardia. Intendiamoci: non è in gioco l’onestà del governatore. Ma la sua integrità personale ha finito per coprire il fenomeno. La politica nazionale ha brandito il suo nome come una patente di probità e si è chiamata fuori. E sulla camorra è planato il silenzio della collusione.

Come si batte la camorra?

La rivolta deve partire dagli imprenditori. Confindustria dovrebbe denunciare il capitalismo criminale che non crea sviluppo, contrastando il lavoro nero, l’assenza di relazioni sul territorio, l’edilizia che esporta lavoro a basso costo al Nord, l’ecomafia che importa rifiuti tossici. Bisogna modificare i vettori economici, altrimenti si finisce per contrabbandare la camorra per questione morale. E si fa un grande regalo ai boss.

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