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Kitchi Manitou (di Paola Carini)
2.10.2006
*Le religioni tribali sono banalizzate in maniera impenitente da persone che vorrebbero sinceramente imparare da esse*. Così, nell’usuale acutezza di analisi, Vine Deloria Jr. si è espresso circa il crescente interesse verso questo aspetto delle culture nativo-americane. Mai come negli ultimi decenni svariati riti “indiani” hanno richiamato proseliti di ogni etnia, religione, nazionalità o cultura, di solito dietro pagamento di un obolo più o meno consistente. Molte volte eseguite da persone che si spacciano per “indiani”, altre volte da persone effettivamente nativo-americane, queste pseudo-cerimonie sembrano dare risposta a quello stato di denutrizione profonda che la propria religione, o nessun altra religione, pare non poter soddisfare.

Chiunque le osservi con gli occhi del buonsenso ne capisce immediatamente sia l’infondatezza che l’inefficacia, ma il bisogno di spiritualità di questi tempi moderni è così viscerale che si è pronti ad accettare, incondizionatamente, qualsiasi cosa. “Il diluvio di libri sulle religioni tribali” continua Deloria, “è semplicemente un’appropriazione superficiale di simboli indiani per andare incontro alle richieste emotive di quest’epoca, ma non ha alcuna relazione con gli atti religiosi che gli indiani tradizionalisti, nemmeno decenni fa, compivano”.

Come altrove sottolineato in questa rubrica, la traslazione da una cultura all’altra di brandelli di religiosità si traduce inevitabilmente in imitazione mercificabile; che si tratti di narrativa, di resoconti antropologici, di studi sulla religione “indiana”, di “sciamani” impostori o di guru new age, gli esempi abbondano e, abbracciando immancabilmente triti cliché, sono alla lunga facilmente individuabili. Ciò che occorre sottolineare è il fatto che esistono, per ogni gruppo tribale, membri tradizionalisti i quali sono riconosciuti dalla propria comunità come autorità spirituali; è a loro che ci si deve rivolgere per dirimere dubbi o chiedere conferme.

Le religioni dei nativo-americani, cioè l’esperienza con il divino codificata nel corso dei millenni nella ritualità, nella lingua, nelle espressioni culturali, sono tante quanti sono i gruppi tribali. Quando esse vennero bandite, la lingua proibita, i bufali sterminati e migliaia di persone forzate a migrare dalle proprie terre per essere confinate nel Territorio Indiano, la gran parte delle credenze, dei riti e delle preghiere venne celata con accuratezza. La segretezza, essenziale per la sopravvivenza, divenne un naturale stratagemma e rimase l’accorgimento principale con cui alcuni tradizionalisti decisero di narrare la propria vita e quella del proprio popolo a personaggi esterni che ne fecero dei libri: celebre è il racconto di Mary Sandoz sulla vita di Crazy Horse costruito sui ricordi di parenti e amici del guerriero sioux, e altrettanto lo è sia la biografia di Black Elk che quella più recente di Lame Deer. Benché il contenuto, in questi casi, sia assolutamente attendibile, è essenziale ricordare che esso è solamente quel che ci è stato concesso di sapere, ovvero solo un tassello di una realtà ben più composita che coinvolge l’individuo, la collettività, il mondo naturale e il mondo spirituale. Scambiare questa parte per il tutto sarebbe una sterile saccenteria.

“Ciò che di buono si trova in questo libro
È restituito
Ai sei Grandi Padri
E ai grandi uomini della mia gente”.


Questa è la dedica del famosissimo libro “Alce Nero Parla”, in cui l’oglala Black Elk racconta la propria vita all’americano Neihardt. La locuzione “Grandi Padri” è la mia traduzione del termine Grandfathers, letteralmente “Nonni”, termine che indica gli spiriti rispettivamente dell’Ovest, del Nord, dell’Est, del Sud, del Cielo, della Terra; sono le “potenze del mondo”, gli spiriti che risiedono ai quattro angoli del pianeta, nel cielo e nella terra, ma sono anche un “unico spirito, l’Uno”, il “Grande Spirito”.

Chiunque abbia letto il libro, soprattutto se in traduzione, molto probabilmente avrà trovato qualche difficoltà a comprendere la visione che Black Elk ebbe da bambino. È difficile per un occidentale credere che le manifestazioni naturali possiedano uno spirito e capire il motivo per cui le si identifica come “nonni”, ma il desiderio di vedere il lato spirituale della vita è così forte che molti riprendono queste credenze seguendole ciecamente.

Inserire in un contesto a noi riconoscibile un avvenimento come quello che racconta Black Elk, culturalmente lontano e per di più fuori dall’ordinario umano, è impresa estremamente ardua. Articolando la propria apprensione della “forza vitale dell’universo che si trova in ogni cosa”, come la definisce Deloria, Black Elk usa un linguaggio che indubbiamente descrive il sacro. E avvicinarsi al sacro, territorio immensamente vasto e profondamente arcano, richiede passi cauti e incedere umile. Farne propria in maniera pedissequa l’esperienza altrui ha come unico effetto quello di svuotare del vero significato l’esperienza stessa; questa è la banalizzazione di cui parla Deloria. Chi sente davvero che la terra è madre, il cielo è padre, che gli alberi hanno una loro essenza o l’acqua un suo spirito normalmente non cerca adepti e soprattutto non lo rivela mai né dettagliatamente né esaustivamente poiché sa bene che il contatto con il divino è un fatto di mistero e una questione di spirito. Per gli osservatori esterni, i curiosi, i sinceramente interessati ne vengono tracciati solamente i contorni; ciò che è lecito sapere è semplicemente il canovaccio, in primis l’idea ricorrente che il mondo è ombra del mondo vero che giace oltre questo e che per mantenere l’armonia di ogni sua parte bisogna costantemente bilanciarne le forze che lo compongono. Ciò che ne riflette perfettamente la complessità è il lemma più noto, e più mistificato, delle lingue amerindie: il “grande spirito”.

Il mistero. O anche l’essenza, la sostanza, la materia, lo spirito, l’anima, Dio, la divinità, l’incorporeo, il trascendente, la realtà invisibile. Questa è la definizione che lo studioso e tradizionalista Basil Johnston dà della parola in lingua anishinaubae “Manitou”. Il predicato kitchi sta invece per immenso, vasto, incommensurabile, primigenio. Immaginate le varie traduzioni della locuzione kitchi manitou: l’essenza primigenia, l’immenso mistero, la vasta realtà invisibile, e così via; ogni combinazione è possibile, compresa la disorientante “materia incommensurabile”. La sintesi che Johnston fornisce è la seguente: il Grande Mistero. Deloria, fornendone un’immagine più generica, lo descrive come l’identità misteriosa, l’energia dell’universo che si trova in ogni cosa e che procede secondo certe direzioni lungo le quali si devono collocare anche gli esseri umani. C’è una certa riluttanza, egli spiega, a definirne l’essenza o addirittura a pronunciarne il nome; piuttosto, se ne devono riconoscere le manifestazioni, senza presupporre - abbaglio molto frequente tra chi nativo-americano non è - che tutto, in ogni momento lo sia. Il confine tra sacro e secolare, spirituale e mondano è perfettamente chiaro, ma chi non lo vede finisce con lo scambiare lucciole per lanterne e, come direbbero i lakota, ogni aquila per wambli.

Il Grande Mistero, sottolinea Deloria, si disvela per mezzo di entità che hanno un ruolo specifico nella creazione e nell’interazione con gli umani. Ognuna di esse, al pari di ogni essere umano, ha uno specifico ruolo direttamente proporzionale non ad un’importanza gerarchica quanto alla consapevolezza della propria responsabilità nel mondo. Non essendo divinità, gli umani spesso si rivolgono a loro in maniera ritualizzata per chiedere assistenza o per esprimere loro gratitudine, ma non per venerarle. Così accade che i lakota si rivolgano a wambli e gli haudenosaunee a ganegwa’e, per entrambi lo spirito dell’aquila, prima della caccia, poiché il compito degli esseri umani è quello di mantenere in equilibrio le forze visibili e invisibili che costituiscono il mondo e la caccia ne è un potenziale disallineamento. Rituali cadenzati dal passare delle stagioni, come ad esempio quelli del calendario cerimoniale agricolo degli hopi, sono espressioni di questa credenza religiosa e, al tempo stesso, dell’esperienza dell’incontro con il sacro cristallizzato nel corso dei secoli nel corpus mitologico e nelle pratiche cerimoniali di quel popolo. In sostanza, conclude Deloria in un illuminante saggio, le religioni nativo-americane concepiscono un universo vivente alla cui origine c’è una misteriosa energia che tutto pervade. Sebbene questa energia la si possa incontrare ovunque, è la sua manifestazione specifica in momenti storici precisi che ha permesso a quel determinato gruppo tribale di intessere una relazione unica con essa senza per questo considerarla la verità assoluta, la rivelazione ultima del Grande Spirito, del Grande Mistero. Avvicinarsi al sacro, è utile ribardilo, è prendere coscienza della sua immensità e dei nostri enormi limiti umani.

Tra pochi giorni sarà disponibile in Italia un nuovo videogioco. Oltre ad avere effetti tridimensionali strabilianti, un “ambiente organico” che interagisce con i personaggi e “portali” che li possono fare apparire e sparire, si avvale di un intreccio che è sorretto da “autentica mitologia cherokee”. Il protagonista è un giovane meccanico che conduce un’esistenza grigia nella riserva cherokee fino a quando una nave aliena rapisce lui e il suo popolo. Per salvare sé stesso e la sua gente, oltre che la sua amata, dovrà usare i poteri spirituali cherokee che all’improvviso si sono risvegliati in lui. Per combattere gli alieni si avvarrà dell’aiuto di un “falco spirituale”, che riesce a decifrare il linguaggio della nave aliena. È una storia di “sacrificio, amore e responsabilità” che sono temi, si legge nella pubblicità al prodotto, poco proposti nei giochi elettronici.

All’apparenza sembra un modo accattivante, e per molti sicuramente divertente, di giocare con una pseudo-religione, purché si rimanga consapevoli che di quello si tratta, di un gioco che non ha alcuna relazione con la tradizione spirituale cherokee.

Allo stesso modo si deve essere consapevoli che quel che sappiamo della spiritualità nativo-americana, per quanto minuzioso o attendibile, non è che un’infinitesima parte di qualcosa, che alcuni chiamano Kitchi Manitou, di infinitamente più grande: il mistero della vita.

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I commenti degli utenti (Solo gli iscritti possono inserire commenti)
10.16.2006 15:06
Non posso che complimentarmi per questo articolo, da anni ormai anche attraverso il mio sito web denuncio il problema degli abusi sulle cerimonie spirituali degli indiani d'America, questo articolo è uno dei pochi che si può leggere qui in Italia, quindi
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