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AAA … imprenditore cercasi (di Vittorio Olivari)
3.10.2006
Come le stagioni dell’anno, come le smentite dei politici, come il festival di Sanremo, come la manovra correttiva della finanziaria, come i servizi sui processi a Vanna Marchi, come i condoni, … anche loro, inesorabilmente ed inevitabilmente, ritornano. Sono le polemiche sulla “classe imprenditoriale italiana” o sul capitalismo di casa nostra, che, come si legge sui giornali o si ascolta nei talk show, non c’è o, se c’è, funziona comunque a mezzo servizio, che talvolta mostra i muscoli, ma viene immediatamente beccato …dall’antidoping, che si lamenta della classe politica, ma vive, o meglio, sopravvive solo perché puntellato dalla classe politica ecc ecc.

Qualche mese fa, l’ENEL aveva visto infrangere i propri sogni di espansione contro gli scogli francesi, che avevano retto senza difficoltà all’onda italiana (oltralpe, quando si tratti di difendere i propri interessi non guardano in faccia a nessuno, dimostrando un senso dello Stato di cui possiamo solo essere invidiosi), in queste settimane è Telecom che dichiara la propria debolezza e rischia di essere prima fatta a pezzi per e poi ceduta a qualche acquirente straniero.

Il mondo politico ha manifestato tutto il proprio disappunto nei confronti dei modi con cui la vicenda è stata condotta e della debolezza dimostrata dal sistema industriale italiano. Il ritornello è più o meno sempre lo stesso: gli industriali di casa nostra sono poco preparati, sono poco influenti in campo internazionale, non sono capaci di pensare in grande, … ma la verità è un’altra, ben più grave. Gli industriali di casa nostra, salvo alcune, ahimè rare, splendide eccezioni, non esistono più!

La loro estinzione è iniziata quando hanno cominciato a prendere piede teorie balzane come quelle secondo cui “più si sale nelle organizzazioni, meno si deve sapere”, per cui i ruoli di massima responsabilità devono essere occupati da persone che tendono alla “massima incompetenza”.

I risultati di queste bizzarre teorie sono sotto gli occhi di tutti: in Italia le fabbriche si chiudono, le industrie si smantellano, il Paese perde know-how e competitività, pochi diventano ricchissimi a spese di molti che si impoveriscono. Già perché ora, altre brillanti teorie, sostengono che la chiave di tutto è la finanza, per cui ai vertici delle industrie italiane ci sono allegri finanzieri impegnati in acquisizioni, smembramenti, vendite, … operazioni da monopoli, non da Paese che vuole costruire un tessuto industriale efficace ed efficiente, che sappia garantire il lavoro a tutti, distribuire ricchezza e benessere, generando quel circolo virtuoso che è la base dello sviluppo e della vera crescita economica.

Quando la finanza è fine e non mezzo, quando la finanza prescinde da un progetto industriale, quando i soldi arrivano non dalla produzione e dalla commercializzazione di un bene o di un servizio che si afferma sul mercato grazie alla qualità ed al prezzo, ma dalle carte che si fanno girare da una società ad un’altra o dagli assetti societari che si modificano, allora la ricchezza è fittizia, o meglio è reale ed è enorme per chi muove le carte, ma è falsa per il Paese che, al contrario, diventa ogni giorno più povero.

E’ così difficile vedere le vere cause che hanno determinato il boom degli anni ’50?

Certo erano gli anni in cui i bisogni andavano “soddisfatti”, mentre ora i bisogni vanno prima “creati”, certo erano gli anni della ricostruzione post-bellica, certo erano gli anni della crescita mondiale, ma erano anche gli anni in cui non c’erano le infrastrutture, non c’erano il fax, il computer, la televisione, … per cui gli strumenti per affrontare la sfida sui mercati erano decisamente meno potenti di quelli di cui si dispone adesso. Ed allora, qual è stata la differenza che ha fatto trionfare il made in Italy? La differenza aveva nomi e cognomi precisi: Pirelli, Falk, Agnelli, Alemagna, Olivetti, Motta, Piaggio, …. industriali veri che avevano la passione per il prodotto e per la produzione, che alla finanza chiedevano i mezzi per realizzare i loro progetti industriali dai quali ricevevano ricchezza vera, per sé stessi, per le persone che lavoravano per loro e per il Paese. Ecco chi ha fatto la differenza nei primi anni del dopoguerra.

Venendo ad un esempio che il lodigiano ha vissuto da vicino, proviamo a pensare alla Polenghi. Il sig. Polenghi ha creato nel dopoguerra un colosso alimentare (chi non ricorda il latte Stelat, il burro Optimum, il mascarpone, le galatine, …) perché sapeva lavorare il latte e fare prodotti migliori della concorrenza. Ho sentito raccontare ad un incontro di celebrazione dell’azienda, che la Polenghi esportava in America nel 1964 ben oltre 100 tipi di formaggio … e non c’erano i corrieri …. Oggi cosa è rimasto? Poco più di nulla. Altri esempi? Eccoli: Pirelli dormiva in fabbrica per cercare di capire come far quadrare i conti, Olivetti aveva inventato il primo computer, Piaggio faceva propulsori e motori che il mondo ci invidiava, … ecco le cause vere del boom degli anni ’50: industriali che lavoravano dentro e per le industrie, persone competenti che avevano la passione per i prodotti che uscivano dalle loro fabbriche e che dai loro prodotti ricavavano risorse per generare ricchezza e per promuovere lo sviluppo.

Oggi questi personaggi non ci sono più ed il loro posto è stato preso da chi non conosce il prodotto, pensa che la produzione sia “una palla al piede”, preferisce un guadagno effimero, ma consistente ed immediato, piuttosto di una ricchezza vera, che richiede tempo e costa fatica, vive sotto le luci della ribalta e non sotto i neon della fabbrica.

La situazione in cui si è trovata l’Italia è ancora più incredibile se si pensa che tutto era già stato previsto molti anni fa, quando Don Luigi Sturzo, nei suoi articoli e nei suoi interventi al Senato a cavallo degli anni ‘50, denunciava i mali del sistema economico italiano ed i rischi che il bel Paese correva. Scriveva Don Sturzo: “Quel che più disturba chi è vissuto per sì lungo tempo in paesi liberi (n.d.r.: don Sturzo aveva trascorso molti anni in Inghilterra e negli Stati Uniti, durante l’esilio nel ventennio fascista) … è la constatazione che gli italiani si sono talmente adagiati all’idea dello stato-tutto, che nessuno ha più ritegno di invocare provvedimenti e interventi statali per la più insignificante iniziativa”. Continuava don Sturzo: “ L’Italia si è imbarcata in un sistema ibrido di economia di stato per determinati settori dell’industria e della banca, in collaborazione con l’economia privata che risulta di fatto economia di sfruttamento delle risorse pubbliche. Occorre togliere a tutti gli “Iri”, “Imi”, e le “Fim” e simili combinazioni alfabetiche, la incrostatura burocratica e statale; liquidare le industrie deficitarie che non potranno reggersi da sole ….”

“Per quanto si possa essere scrupolosi nella gestione del denaro pubblico, si sa da secoli che le industrie dello stato vanno male; che i commerci dello stato vanno male; che le aziende municipalizzate e statizzate vanno male. Anzi, si sa dippiù; che quando i privati sanno che c’è Pantalone-Iri o Pantalone-Imi o Pantalone-Fim o Pantalone indicato con altri cento nomi e sigle, anche i privati amministrano come amministrano gli enti statali, parastatali e assimilati”.

Proseguiva Don Sturzo, sostenendo che solo poche realtà imprenditoriali riuscivano a vivere di vita propria, e “quel poco che ci mette l’iniziativa privata da sola, al di fuori dei contatti ibridi e torbidi con lo stato, è merito di imprenditori intelligenti, di tecnici superiori, di mano d’opera qualificata, della vecchia libera tradizione italiana. Ma va scomparendo sotto l’ondata dirigista e monopolista”.

Ci era già stato detto tutto: industriali che abdicano al loro ruolo per diventare “parastatali”, che rinunciano alla sfida con i mercati preferendo l’intreccio con la politica, e che, nel pieno rispetto delle leggi, possono sfruttare le risorse pubbliche per portare a compimento i loro giochi finanziari, … tutto questo salvo alcune rare, splendide eccezioni che sono figlie “di imprenditori intelligenti, di tecnici superiori, di mano d’opera qualificata, della vecchia libera tradizione italiana”. Ecco quel che manca oggi al nostro bel paese: imprenditori capaci di assumere il rischio d’impresa, tecnici capaci di vincere la sfida tecnologia e mano d’opera che sappia garantire il successo delle aziende coniugando qualità e produttività … ci è stato detto oltre 50 anni fa …

Sempre più mi convinco che c’è poco da inventare: basterebbe fare (o non fare) ciò che già 50 anni fa personaggi illuminati ed illuminanti non si stancavano di dire e già avremmo dato un contributo essenziale per lasciare ai nostri figli un’Italia migliore di quella che abbiamo ricevuto.

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