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A che cosa servirà il partito nuovo (di P. Scoppola)
5.10.2006
Anticipo alcune idee che esporrò al convegno di Orvieto che Romano Prodi mi ha chiesto di aprire.

Il discorso è semplice se lo si prende dal capo giusto; è complicato e vacuo se lo si prende dalla coda, ad esempio dal trito interrogativo sulla collocazione nel parlamento europeo, come se gli individui dovessero essere fatti su misura dei vestiti disponibili e non i vestiti su misura degli individui. Storicamente i partiti nascono per rappresentare (o credendo di rappresentare) interessi, domande nuove, valori di una società che cambia: così il partito liberale, il partito socialista, così il partito popolare, il Partito comunista e poi la Democrazia cristiana, e poi ancora la nuova sinistra, gli ambientalisti, i verdi e via dicendo.

Di norma i partiti nascono sul ceppo di movimenti preesistenti e già radicati nella società.

Che cosa dovrebbe rappresentare oggi il Partito democratico, quali interessi, quali domande, quali valori? Quali sono le domande nuove inevase che giustificano la nascita di un partito nuovo? E quali radici a livello di movimenti il partito ha già nella società italiana? Sono i problemi che il secolo scorso ci ha lasciati irrisolti, tutti legati a un intreccio di interessi materiali e immateriali.

Il secolo scorso ha segnato il fallimento di tutte le ideologie di liberazione dell’uomo legate al mito dell’uomo nuovo costruito dal potere politico, dallo stato.

Il cristianesimo, la Chiesa, hanno tenuto viva l’esigenza della liberazione dell’uomo e in questo hanno scavalcato il secolo, e tuttavia non hanno potuto dare – e non era il loro compito – una risposta compiuta sul terreno della politica. Ma il secolo trascorso ha segnato anche il fallimento del mito di una democrazia capace di fare emergere spontaneamente risposte e di conquistare terre e popoli nuovi, una democrazia capace di autoriprodursi. Norberto Bobbio lo aveva scritto lucidamente negli anni Ottanta, ancor prima del crollo del comunismo. Dopo il crollo del comunismo la vittoria della democrazia non ha cancellato il problema. La storia non è finita.

Sappiamo tutti ormai che la democrazia è in crisi sotto l’effetto della società dei due terzi; è spesso schiava degli interessi costituiti, degli interessi forti, più che interprete delle speranze dei deboli.

Il fine secolo ha registrato a livello mondiale una crisi di classi dirigenti e ci ha consegnato il problema della loro selezione. La forma partito che abbiamo ereditato dal secolo scorso non è più idonea a selezionare una classe politica all’altezza delle nuove sfide.

Il secolo scorso ci ha consegnato un modello di società (mi riferisco al modello nostro occidentale) in cui il futuro è rigidamente preordinato, in cui non c’è futuro libero. Sappiamo con certezza scientifica che il nostro modello di sviluppo, se non subirà modifiche radicali, renderà, in un tempo che con qualche approssimazione è stato già calcolato, il pianeta invivibile. Ma non si sa ancora come e con quali forze il modello di sviluppo potrà essere modificato.

Il problema enorme, che tuttavia un partito che guardi al futuro non può non aver presente come orizzonte culturale, è quello della libertà delle future generazioni, oggi chiuse, e per questo senza speranza né fiducia nel futuro, in un ferreo determinismo.

Il secolo scorso che si era aperto nel clima ingenuo di una sconfinata fiducia nella possibilità della scienza di operare per la liberazione dell’uomo, ci consegna in eredità la drammatica coscienza di un progresso tecnologico che sfugge alla possibilità di ogni controllo.

Poi c’è il tema dell’insostenibile rapporto fra il nord e il sud del pianeta che, così come sta oggi, non può durare.

Il fattore religioso è riemerso sulla scena mondiale in primo piano, ma ha assunto anche forme fondamentaliste che rappresentano una sfida imprevedibile e inquietante alla democrazia e ai valori liberali: proprio a questi valori il fondamentalismo islamico attribuisce la responsabilità della crisi del tessuto etico religioso della società occidentale verso la quale concentra perciò la sua polemica e il suo attacco.

Laicità e libertà religiosa sono valori irrinunciabili; la laicità dello stato è la condizione essenziale della convivenza pacifica; ma dobbiamo forse ripensare la laicità in termini che non escludano, anzi valorizzino l’apporto delle esperienze religiose alla formazione del tessuto etico della società. Se non vogliamo che del fattore religioso, del cristianesimo, si impadroniscano i teocon, gli atei devoti, per i loro obiettivi politici.

Così al senso di dipendenza e di frustrazione prodotto da un determinismo frutto del sistema economico e della rincorsa tecnologica si aggiunge un secondo motivo di insicurezza, tutto interno alle responsabilità politiche e religiose: la crisi del rapporto tra i popoli e le religioni.

La libertà dal determinismo, la liberazione dalla paura e la riscoperta della speranza come spazio vitale necessario alle nuove generazioni non sono certo obiettivi facili, alla portata soltanto di un partito politico, ma il Partito democratico, se nascerà, non potrà non porsi questi temi come elemento caratterizzante della sua cultura. Tutto dovrà inquadrarsi in una visione europeistica ed internazionalistica che non dovrà essere solo un punto del programma del nuovo partito, ma una sua connotazione essenziale.

Ma l’incertezza che assilla le nuove generazioni ha altri aspetti che sono parte essenziale della domanda che un partito democratico dovrebbe raccogliere.

Penso alla possibilità e alla stabilità del lavoro, alle garanzie per la vecchiaia e per la malattia, insomma a quello che il welfare aveva conquistato e la globalizzazione ha messo in discussione. Qui il rischio è quello di una difesa quantitativa che si risolva in un progressivo arretramento senza un salto di qualità.

Consentitemi un confronto fantasioso.

Quello che l’individuo della società preindustriale trovava nella grande famiglia patriarcale di un tempo e che l’individuo isolato e la famiglia nucleare della società industriale ha cercato e trovato, almeno in parte, nello stato sociale, deve essere recuperato sul terreno di un tessuto sociale nuovo che alla solitudine dell’uomo moderno risponda con un tessuto libero di amicizie. L’amicizia contro la solitudine. La riforma del welfare, in altre parole, non dovrebbe essere questione di quantità o di tagli, ma di riconversione qualitativa nel senso di un coinvolgimento di tutto il tessuto sociale su valori di convivenza, solidarietà, amicizia appunto. Ma, attenzione, amicizia nel senso etimologico dalla radice latina di amare, non nel senso deteriore della amicizia politica anticamera della corruzione...

Non si tratta solo di vecchiaia o di malattia: si tratta di solitudine di adulti e di socializzazione di giovani e giovanissimi. Si pensi ai bambini e ai ragazzi la cui socializzazione è affidata oggi alla vita di banda nelle strade, a rumorose sale da gioco, alla pratica non dello sport ma del fanatismo sportivo, alla televisione. Mi chiedo se non si può pensare ad una funzione più ampia della scuola e ad una valorizzazione con opportuni incentivi di tutte le iniziative esistenti nel quadro di una applicazione larga, non gelosa, del principio di sussidiarietà.

Ecco: determinismo e libertà, paura e speranza di futuro, solitudine e amicizia, sono queste alcune delle antitesi sulle quali un partito democratico dovrebbe lavorare per costruire la sua identità e il suo progetto. Questi sono solo esempi ed accenni.

Ma questi accenni sono sufficienti per comprendere che un partito che si muova in un simile orizzonte culturale dovrebbe avere una struttura del tutto nuova, tutta da inventare, dovrebbe in sostanza realizzare una nuova forma partito.

Dovrebbe, io credo, fondarsi sulle adesioni per obiettivi più che su iscrizioni al partito che diventano iscrizioni a correnti: dovrebbe valorizzare al massimo la partecipazione di base per garantire un largo circuito di nuove energie e quindi di classe dirigente. (...)

* Estratto della relazione al convegno di Chianciano.

da www.europaquotidiano.it

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