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Post Orvieto, modelli europei (di Stefano Ceccanti) |
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10.10.2006
Un buon partito sa guardare fuori (anche quando sceglie i suoi leader)
Caro direttore, trovo un po' troppo ecumenico il tuo editoriale di
ieri sul Partito democratico.
Tralasciamo i problemi della fase di
transizione, in cui compromessi tra istanze diverse sono inevitabili,
in particolare tra il ruolo di promotori dei partiti e la spinta
diretta dei cittadini. La questione di come debba funzionare il
modello "a regime" si presta male a equilibrismi. Le forme di governo
parlamentari efficienti praticano il «doppio incarico» tra leader del
partito a vocazione maggioritaria e guida del governo.
Ciò garantisce
la responsabilità connessa all'innovazione politica.
Infatti non è
possibile scaricare su un governo "cattivo" le scelte impopolari che
il partito "buono" disconosce.
Ciò induce dentro i partiti il
medesimo meccanismo bipolare di scelta tra chiare alternative
operante a livello di sistema, che è esattamente il contrario di un
modello di centro burocratico che assorbe le istanze delle ali,
quello che in Italia ha coniugato la ferrea continuità del personale
politico e la relativa cooptazione con una (relativa) discontinuitÃ
dei programmi.
La scelta del modello «un uomo un voto» e la particolare
valorizzazione della scelta diretta di chi ricopra il doppio
incarico, anche se non sono gli elementi unici del futuro partito,
non sono quindi aspetti periferici né estranei alle profonde
evoluzioni dei sistemi europei.
Non a caso, sempre, ad Orvieto, la
settimana precedente Libertà Eguale aveva così scritto al punto 9 dei
12 pilastri del futuro Pd: «il Pd è un partito fondato sul principio
di responsabilità , temperato dalla divisione orizzontale e verticale
dei poteri, dall'indipendenza dei garanti e da obblighi di
trasparenza. Il segretario è eletto dagli iscritti nelle associazioni
di base (circoli e sezioni, territoriali e tematiche) e da quanti
aderiscano individualmente al partito accettandone lo statuto» (testo
integrale sul sito http://www.libertaeguale.com ).
Sempre più
frequentemente, infatti, nei partiti europei (quindi non nel Pcus o
nei partiti americani) la costante prima descritta (il «doppio
incarico») si è andata sempre più accompagnando a una spinta ad
allargare la base di coloro che scelgono tale leader per evidenti
esigenze democratiche.
Se il potere è comunque concentrato bisogna infatti che il
coinvolgimento sia massimo nella scelta del titolare.
Inoltre è
evidente che, proprio perché quella scelta conta, è proprio su di
essa che i partiti possono essere rivitalizzati: si può attendere una
partecipazione elevata quando la scelta è massimamente incidente e
non quando ha significati per lo più ritualistici, in cui si conferma
un'appartenenza. Fenomeno che politologi come Fabbrini e Massari
hanno descritto da anni come modello di partito «estroverso», più
attento alle preferenze dell'elettorato potenziale e delle sue
volontà di innovazione piuttosto che solo a quello di appartenenza.
Blair, più popolare tra gli elettori che nel partito, prevalse su
Brown, spingendolo al ritiro, anche perché fu scelto il metodo del
voto postale tra tutti gli aderenti (con ben 900 mila partecipanti).
Schröder fu preferito a Lafontaine perché le elezioni nel suo Land,
la Bassa Sassonia, furono assunte già da prima come una sorta di
primaria anomala: se avesse vinto (come poi accadde) attraendo
elettori incerti sarebbe stato il candidato per le politiche
seguenti. Analoga la scelta francese, sia pure con la particolaritÃ
dell'elezione diretta di un presidente governante che impone, quanto
meno dopo la sua elezione, uno sdoppiamento tra le cariche di
presidente e di segretario del partito.
Dagli anni '90 sia i
segretari di partito sia spesso anche i candidati presidenziali
(quando non sono i segretari medesimi) sono scelti col voto di tutti
gli iscritti.
Non si tratta però di un sistema chiuso, impermeabile
all'esterno, perché viene promossa una campagna di nuove adesioni
mirata proprio al poter votare per la primaria.
Il Ps aveva 120 mila
iscritti prima di lanciare la campagna per le primarie presidenziali
di novembre. Non appena indetta se ne sono registrati on-line altri
80 mila.
Peraltro anche alcune ipotesi di rinnovamento nei nostri partiti
hanno perseguito quegli obiettivi, ben prima della primaria
dell'Unione.
Per fare solo gli esempi più importanti, da segretario
della Dc Ciriaco De Mita, anche grazie alla spinta di Pietro Scoppola
e altri esterni, restaurò l'elezione diretta del segretario da parte
dei delegati al congresso, che era finalizzata ad andare verso il
doppio incarico di segretario e presidente del Consiglio, che poi
conseguì solo per poco, riassorbito dalle convenzioni del sistema
oligarchico.
Ma anche i due attuali partiti che danno vita al Pd, Ds
e Margherita, quando hanno pensato di costruire ciascuno per conto
proprio l'embrione del partito a vocazione maggioritaria, hanno
perseguito l'obiettivo del doppio incarico. Nel passaggio dal Pds ai
Ds la principale innovazione statutaria fu proprio l'allargamento
della base elettiva del segretario, dalla platea dei delegati al
congresso all'insieme degli iscritti. Una novità prima anticipata di
fatto con l'"indicazione" di Veltroni nella mozione di maggioranza
del congresso di Torino e che fu lì formalizzata, peraltro con un
bell'intervento motivato a favore di Gavino Angius che ne sottolineò
la valenza di apertura democratica.
Nella Margherita la scelta di
Francesco Rutelli come leader fu la conseguenza della sua ottima
performance come candidato alla premiership nelle politiche 2001,
recuperando molti punti rispetto alle regionali del 2000, seguendo
altri esempi comparati, come quello di Mitterrand che divenne
segretario del nuovo Ps in quanto ex candidato alle presidenziali del
1965 sconfitto con onore da de Gaulle al ballottaggio.
Una volta giunti alla consapevolezza che nessuno dei due partiti è in
grado da solo di risolvere quel nodo, sarebbe ben strano che i
medesimi partiti e che i loro leader che in altre fasi sono stati tra
i promotori primi di quelle innovazioni ne negassero l'evidenza e la
rilevanza.
Proprio per costruire nient'altro che un partito europeo
dentro un bipolarismo europeo. Se così non fosse, è evidente che la
questione di cui stiamo ora parlando potrebbe diventare uno dei più
significativi elementi di discussione e di differenziazione interna
già dentro gli imminenti congressi dei partiti.
Stefano Ceccanti é Docente di Diritto costituzionale all'Università La Sapienza di Roma
Fonte: www.ilriformista.it
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