28.10.2006
La lezione magistrale di Benedetto XVI: un ritorno al Medioevo? di Elio Rindone / ADISTA
Il clamore delle reazioni alla lectio magistralis di Benedetto XVI ha fatto passare sotto silenzio alcuni passaggi del testo che forse sono non meno discutibili di quelli che hanno irritato il mondo musulmano. In estrema sintesi il papa, dopo avere affermato che l'islam ammette anche il ricorso alla violenza per la diffusione della fede mentre la grande tradizione cristiana, caratterizzata dal "vicendevole avvicinamento interiore" tra "la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco", rifiuta l'imposizione della fede con la forza, ha aggiunto: a) questa feconda simbiosi tra ragione e fede è stata purtroppo, già a partire dal XVI secolo, compromessa in Occidente dai fautori della deellenizzazione del cristianesimo, che contestano l'idea "che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana"; b) la ragione moderna, separatasi dalla fede, si è così appiattita in uno scientismo di stampo positivista, escludendo dal suo orizzonte le grandi questioni metafisiche e i grandi interrogativi esistenziali, e ciò ha determinato uno straordinario impoverimento dell'umano. È auspicabile, perciò, una nuova intesa che restituisca alla fede una rilevanza culturale e consenta al contempo "un allargamento del nostro concetto di ragione e dell'uso di essa". Ora, tralasciando il fatto che anche nei libri sacri e nella prassi dei cristiani ha trovato posto la violenza e che la concezione islamica della guerra santa è più variegata di quanto non risulti dalle parole del papa, vorrei soffermarmi sulle sue due ultime affermazioni. a) La richiesta di deellenizzare il cristianesimo, e cioè di separare la rivelazione biblica dalla razionalità greca, avanzata da Lutero e che "dall'inizio dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica", costituisce per il papa un errore capitale: il cristianesimo ne risulterebbe snaturato, perché esso è proprio il frutto di quell'incontro - e di passaggio si può notare come con queste posizioni è molto difficile che progredisca il dialogo con i 'fratelli separati'! Ora, che il messaggio biblico sia stato per secoli ripensato mediante categorie greche è un fatto indiscutibile, ma che esso debba essere 'necessariamente' letto attraverso quelle categorie è tutto da dimostrare. Benedetto XVI ritiene che indizi di tale 'necessità ' si trovino nella Bibbia stessa, e ricorda "la visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: ‘Passa in Macedonia e aiutaci!' (cfr At 16,6-10) - questa visione può essere interpretata come una ‘condensazione' della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi greco". Certo, con un po' di buona volontà alla Bibbia si può far dire tutto, ma è giusto riconoscere che oggi ben pochi esegeti riterrebbero verosimile tale 'interpretazione'! Del resto, l'incontro fra religione biblica e pensiero greco si è attuato, secondo il papa, già all'interno della storia della rivelazione: "Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata in Alessandria - la "Settanta" -, è […] uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo". Per la verità , l'argomento mi sembra poco convincente: che il pensiero greco abbia influito sulla redazione della 'tarda letteratura sapienziale' e che la traduzione in greco dei 'Settanta' abbia avuto un ruolo notevole per la diffusione del messaggio cristiano sono solo fatti, e trasformare un fatto in una necessità teologica mi pare che implichi un evidente salto logico, o almeno una lettura ingenuamente provvidenzialistica della storia. Se la fede biblica si fosse diffusa in un contesto in cui la cultura prevalente fosse stata non quella greca ma quella, per esempio, cinese, siamo sicuri che qualche agiografo non ne sarebbe stato influenzato e che non avremmo avuto prontamente una traduzione in cinese? Se la sintesi con l'ellenismo, come sostengono oggi non pochi teologi, è stata solo una delle possibili inculturazioni, va riconosciuta la ragionevolezza della posizione di Lutero: tornare al messaggio originario, rifiutando un cristianesimo grecizzato, o eventualmente 'cinesizzato'. È noto che i testi classici sono soggetti nel corso dei secoli a varie interpretazioni, e talvolta a vere e proprie deformazioni. Quando il progresso degli studi filologici consente di rendersi conto che una tradizione interpretativa non è corretta, è assolutamente comprensibile che si voglia tornare alle fonti. Come si cerca di ricostruire, per esempio, l'autentico pensiero di Platone, così si tenta di risalire all'originario messaggio evangelico. Perché il rigore critico, che nessuno contesta nel campo degli studi filosofici o letterari, sarebbe inapplicabile in campo biblico? Ciò non significa che si debba condividere la diffidenza di Lutero nei confronti della filosofia: è possibile, infatti, nutrire fiducia nella ragione filosofica e al contempo prendere atto che determinate 'verità ' metafisiche non sono contenute nella rivelazione. Riconoscere il diritto degli esegeti di servirsi di tutti gli strumenti che le scienze umane offrono per comprendere l'autentico messaggio biblico e lasciare liberi i filosofi di dibattere questioni che sono di loro esclusiva competenza: ecco, a mio avviso, una posizione davvero razionale, che l'autorità ecclesiastica invece considera assolutamente preoccupante. Una lettura del testo biblico condotta col metodo storico-critico, infatti, può mettere in discussione le fondamenta di impalcature teologiche che hanno resistito per secoli e che hanno nutrito l'immaginario di sommi artisti come di umili fedeli, e sono comprensibili i timori del papa di fronte a tale pericolo. In effetti, l'impressione che suscita una simile operazione è quella di un radicale impoverimento, spirituale e culturale, del patrimonio della fede cristiana e di un cedimento alla moda di una ragione che, incapace di scrutare le profondità metafisiche e teologiche che sarebbero contenute nelle pagine della Bibbia, si rinchiude nei limiti angusti di un approccio grettamente scientifico. Ma forse si tratta solo di una prima impressione: forse il messaggio biblico, liberato da categorie filosofiche ad esso estranee, risulta di una ricchezza e di un'attualità sorprendenti. Il Concilio Vaticano II aveva dato fiducia agli esegeti cattolici e la costituzione Dei Verbum aveva fatte proprie tante loro acquisizioni, promuovendo una riscoperta di ciò che è essenziale nel messaggio evangelico e che spesso era stato trascurato. Pochi anni dopo la chiusura del Concilio, infatti, uno studioso cattolico scriveva: "Sono secoli e secoli che non cerchiamo più in quei libri proprio quanto contengono di più decisivo e prezioso"(P. Dacquino, Il messaggio salvifico della Bibbia, in Costituzione conciliare Dei Verbum, Atti della XX settimana biblica, Brescia 1970, p. 277). Negli ultimi decenni, invece, il rinnovamento degli studi biblici è stato decisamente ostacolato e il magistero ha ribadito con forza l'intangibilità della teologia tradizionale elaborata con categorie filosofiche: messa al bando la libera ricerca, un rigido inverno ha fatto ovviamente seguito alla promettente fioritura del periodo conciliare. E tutto ciò, paradossalmente, in nome della difesa della ragione. La ragione, è bene precisare, di un'autorità che pretende da una parte di stabilire l'esatto significato dei testi biblici senza tener conto dei criteri scientifici vigenti nel campo dell'ese-gesi e dall'altra di esortare il pensiero filosofico a recuperare la sua profondità … mettendosi devotamente in ascolto delle grandi tradizioni religiose. b) Benedetto XVI conclude, infatti, la sua analisi invitando i pensatori contemporanei a superare quella concezione riduttiva che considera dotato di rigore scientifico "soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria" e ad aprirsi alla dimensione religiosa: "Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'uma-nità , specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza". Per la verità , ridurre la filosofia moderna e contemporanea a un angusto scientismo ostile ad ogni metafisica sembra un po' eccessivo. Le vie di ricerca imboccate dalla modernità mi pare che siano molteplici e non abbiano come cifra caratterizzante quella suggerita dal papa. Piuttosto, se proprio si vuole trovare un elemento che accomuna la maggior parte dei pensatori moderni, direi che questo possa essere individuato nella progressiva rivendicazione dell'au-tonomia della ragione nei confronti della fede e del magistero ecclesiastico. Forse si può dire che l'epoca medievale termina proprio quando, e nella misura in cui, si afferma un pensiero laico, che vuol procedere in maniera rigorosa puntando solo sulle proprie forze e rifiutando una posizione ancillare nei confronti della teologia. [Segue…]
vedi: http://www.adistaonline.it/?op=articolo&id=24917&PHPSESSID=2daed0449f9e6395a048916b7f4ca7c3
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