27.11.2006
Angelo Petrella / nazioneindiana.com -
L’immagine delle massime autorità cittadine e regionali che presenziano solennemente ai funerali di Mario Merola sono il simbolo del mancato rinnovamento di una classe dirigente. Ciò che deve destare preoccupazione, a mio avviso, non è tanto la battuta del sindaco Iervolino – in realtà ben riuscita e politicamente sagace – a proposito della “guapparia”, ma piuttosto l’apprezzamento della sceneggiata meroliana e del suo patrimonio culturale. Un patrimonio che culmina nel mito stantio e logoro di una Napoli “pizza e mandolino”, fondata su valori conservatori: la famiglia come unico universo di relazioni concepibile, il paternalismo, la subalternità della donna, il senso dell’onore feudale, l’immutabilità della realtà e la rassegnazione all’esistente. Merola è il padre di quella napoletanità di discendenza borbonica che resiste ai decenni e ai secoli, non perché naturale – come qualcuno semplicisticamente interpreta – ma perché foraggiata e sostenuta dal ceto dirigente. Isaia Sales, nel suo recente volume dedicato alla camorra, ricorda un episodio ben esemplificativo di un certo comportamento della politica meridionale: in previsione dell’arrivo di Garibaldi a Napoli nel 1860, l’allora prefetto Romano assoldò nella Guardia cittadina numerosi camorristi, per evitare disordini. Con il risultato di delegare la gestione di una bella fetta di potere ai nemici del popolo, che pur provengono dal popolo stesso. Oltre alle autorità , molti politici e intellettuali hanno partecipato commossi al funerale di Merola, esprimendo apprezzamento per la sua arte “interprete dell’anima popolare della città ”. In realtà l’errore di questo ragionamento è grande e palese: confondere il populismo con il concetto di nazional-popolare, che è ben altra cosa. Secondo Gramsci, la mancanza di un’arte nazional-popolare capace di interpretare e guidare le esigenze culturali delle masse dipende essenzialmente dal mancato mutamento della Storia, ovvero del contesto di rapporti sociali e produttivi del tessuto civile. In poche parole, affinché muti l’arte deve prima mutare la cultura, ovvero quell’insieme di condizioni strutturali che poi consentano di effettuare un salto di qualità . Questo è il motivo per cui diventa molto pericoloso avallare istituzionalmente valori che non ci appartengono più, come giustamente ha ricordato il filosofo Aldo Masullo. Compito della politica sarebbe quello di guidare il “senso comune” popolare e portarlo a maturazione, non di farsi guidare da esso, anche perché non tutti i prodotti popolari sono per forza genuinamente a favore del popolo. L’esempio classico è quello del fenomeno neomelodico, il cui circuito è interamente gestito dalla camorra e i cui prodotti mirano a corroborare un’ideologia anti-sociale.
In quest’ultimo decennio in qualche modo il tessuto artistico napoletano si è spaccato in due: da un lato l’ufficialità borghese di piazza Plebiscito, dei grandi eventi culturali, del premio Napoli, degli artisti chiamati da tante parti del mondo; dall’altro la cultura sotterranea popolare e folcloristica, subito egemonizzata dalla criminalità . Nessuno è riuscito a scorgere però la generazione di mezzo, quella di tanti artisti e intellettuali che sono cresciuti nell’ombra, al di fuori di logiche partitiche o di interessi immediati, in sordina, e che hanno portato avanti un discorso realmente critico e, questo sì, popolare. Come ha scritto Roberto Saviano pochi giorni fa sulle pagine dell’Espresso: «in tutti questi anni, mentre persino la guerra di Secondigliano non riusciva ad avere la stessa visibilità dei fatti riportati in questi giorni, a Napoli e intorno a Napoli continuava a formarsi e trasformarsi un modo nuovo per raccontare quel che stava accadendo. Come se fosse divenuto un imperativo necessario iniziare a raccontare quel che stava sotto gli occhi». Le parole scomode di questa ondata artistica – i nuovi scrittori, i registi, l’hip hop delle periferie, i fotoreporter – sono quelle che parlano della vera Napoli d’oggi, con le sue fratture e le sue enormi contraddizioni, “dal basso”. È questa generazione rinnovata, priva di interessi partitici, che potrà auspicabilmente riavviare quel processo culturale bloccato e senza guida. La nostalgia per il mondo cantato da Merola illumina proprio la condizione di un popolo abbandonato a sé stesso, che si rifugia nel tradizionalismo pur di trovare un punto di riferimento. Tutto ciò non può tacersi solo per paura dei fantasmi democristiani che ogni tanto cercano spazio per riemergere e purtroppo, anche a causa di una cultura che non si svecchia, ci riescono. Il funerale di Merola segna il tramonto di classe dirigente e, oltre il mero significato culturale, chiude una stagione politica.
Fonte: http://www.nazioneindiana.com/2006/11/24/lultimo-guappo
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