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Unire è un atto di coraggio (di Marco Filippeschi) |
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6.12.2006
1. Il presidente Napolitano ha usato parole forti, denunciando come le donne sono sottorappresentate in politica e chiedendo «democrazia e trasparenza nella vita dei partiti», con un’evidente allusione ad una legge per dare regole chiare ai partiti. L’Italia non è il solo paese dell’Occidente a vivere una difficoltà di legittimazione della politica e dei partiti. Ma da noi la patologia è più grave, si è fatta cronica, si somma alle tare storiche accumulate nel tempo e il suo sintomo più evidente è la frammentazione dei partiti.
Oggi la crisi produce una cattiva politica che si mangia le buone politiche e rende difficile comunicare qualcosa al paese. Si è visto anche nella vicenda della legge finanziaria: diciassette dichiarazioni di voto dei gruppi in diretta televisiva. Ventritrè partiti tra Camera e Senato, di cui tredici nella maggioranza, rappresentati nei pastoni politici indigeribili, inguardabili, dei telegiornali. E poi, ogni settimana, le crude cronache di Report e di AnnoZero che rappresentano il disfacimento d’istituzioni fondamentali e l’assenza o l’affanno della politica. Frammentazione della politica e frammentazione sociale s’inseguono in una spirale perversa che spinge il paese al declino. Dunque dobbiamo dire forte e chiaro che politica com’è non va. Che servono riforme elettorali e costituzionali, nuove regole parlamentari e «autoriforme» dei soggetti politici, nei due poli, per il bipolarismo e per fare partiti più grandi. Altrimenti si alimenteranno ancora l’antipolitica e il qualunquismo preparando, se la crisi della politica dovesse precipitare, un’uscita a destra.
2. Quella della frammentazione è una patologia italiana molto grave. E’ un record europeo, come ha dimostrato Roberto D’Alimonte: siamo primi per numero dei partiti e ultimi per dimensione dei partiti. La somma dei due maggiori partiti in Spagna fa l’80%, in Germania il 70, in Gran Bretagna il 68, in Francia – dove i partiti sono in difficoltà – il 58 per cento. Oggi invece, Forza Italia e Ds fanno appena il 40 per cento dei voti. Il partito socialista di Zapatero da solo ha il 43.3% e la Spagna vive il forte dinamismo che vediamo. Ma, fino agli anni ottanta, col sistema già in crisi, anche in Italia la somma dei due partiti più grandi, Dc e Pci, superava il 60 per cento. Mentre alla metà degli anni settanta superava ampiamente il 70 per cento. Dunque, non esiste una maledizione italiana della frammentazione: siamo in una crisi molto grave, ma si deve e si può fare un’inversione di rotta.
3. Il nanismo dei partiti è una delle ragioni di debolezza della politica, di fronte alle dinamiche globali e a quelle economico-sociali che già mettono in discussione le forme e la forza della rappresentanza e l’efficacia della democrazia. Con partiti piccoli si aggrava il deficit democratico dei partiti denunciato da Giorgio Napolitano. Ben oltre il caso estremo di Forza Italia, dove vige un leaderismo assoluto e anomalo – ma ci sono anche noti casi di «leaderismo mignon» o di «partito familiare». Uso le parole di Piero Ignazi: «il fossato tra vertice e base si è dilatato a dismisura, rendendo più efficace la leadership ma minando alla radice l’essenza democratica dei partiti. Il deficit di legittimità dei partiti dipende anche e soprattutto da questo distacco che ha proiettato su di loro un’immagine verticistica e personalistica, in contrasto con il mito razionale della democrazia partecipativa che i partiti incarnano».
E’ questa la prima ragione che rende necessarie e ha fatto sperimentare nuove regole partecipative, quali le primarie, per un positiva personalizzazione nei partiti e, in molti partiti europei, il coinvolgimento diretto degli iscritti nelle decisioni essenziali. Sono in calo anche le adesioni ai partiti. Noi Ds, con i nostri seicentomila iscritti, siamo il secondo partito europeo, dietro alla Spd. Non siamo certo immuni da difetti, ma siamo perciò un fenomeno positivo, anche perché si tratta d’iscritti veri.
La nostra vita interna è trasparente e lo stesso non si può dire per molti degli altri partiti. Poi ci sono le statistiche mortificanti sulla rappresentanza di genere in politica: queste parlano da sole e pongono una questione democratica, ben oltre i problemi della vita interna ai partiti. Le donne sono sottorappresentate soprattutto là dove si sceglie col voto di preferenza, che si è dimostrato nei fatti un arma micidiale di discriminazione. Mentre lo stesso non si può dire per le primarie: perché in queste, invece, si possono già far valere regole d’autodisciplina e quote per la rappresentanza di genere.
Ecco un’altra ragione forte dell’urgenza di disciplinare per legge la vita interna dei partiti, attuando l’articolo 49 della Costituzione. Si può aggiungere, guardando all’esperienza, che i partiti grandi sono quelli dov’è più facile il ricambio generazionale – ho presente i progressi fatti in questi anni dai Ds nelle regioni rosse – e l’apertura a forze esterne: un partito grande come il Pci poteva permettersi di eleggere i molti parlamentari della Sinistra indipendente. Si potrebbe continuare.
4. Si deve chiedere a chi non condivide l’obiettivo del Partito democratico se la politica italiana possa restare così com’è. Se serva o no anche una strategia coraggiosa d’aggregazione, per ridurre la frammentazione, per fare partiti grandi, insieme buone riforme elettorali e costituzionali. A questa domanda non si potrà sfuggire. Si può rispondere no, e arrendersi così alla realtà di partiti che, quando sono grandi com’è il nostro, hanno il 17.5% per cento dei voti, tutelare solo il marchio o glorificare coalizioni sempre più frammentate. Pur sapendo che in queste condizioni non si governa nessun altro grande paese. Se invece alla domanda si risponde, responsabilmente: «sì, servono partiti più grandi», allora si dev’essere conseguenti e scegliere. Si potrebbe capire chi dicesse senza infingimenti: «sono d’accordo, però perseguo un altro progetto, quello di unificare i Ds con la sinistra alternativa, con Rifondazione comunista».
Non è il mio progetto, ma riconoscerei volentieri valore ad un altro processo d’aggregazione, che contemplasse la scelta di regole per il bipolarismo e contro la frammentazione, che non fosse un altro investimento furbesco su una rendita di posizione. Di più. Alle condizioni che ho detto, credo che dovremo essere noi dell’Ulivo, costruendo un partito grande riformista e non moderato, a sfidare la galassia della sinistra radicale e a dirle: «provate anche voi a costruire qualcosa di più grande». Dunque, c’è da scegliere: galleggiare nella crisi della politica, mantenendo i partiti come sono, o aggregare forze per superarla.
E’ di fronte a queste scelte che proprio il tema della collocazione internazionale dà conto della fragilità delle alternative al progetto dell’Ulivo. Assunto l’obiettivo di creare partiti grandi come necessità storica, la scelta di unire i Ds e la Margherita, altre forze e movimenti di tradizione ed impegno democratico, per i Ds è chiaramente alternativa a quella di un’improbabile unificazione, fuori dal Pse, con Rifondazione comunista. Questo è il vero bivio ineludibile a cui saremo di fronte nel nostro congresso. E qui sta l’onere della proposta e della chiarezza, che vale per tutti.
Marco Filippeschi
responsabile Dipartimento Istituzioni dei Ds
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