10.12.2006
Tiziana Verde / Nazione Indiana -
Da nove anni, io lavoro in una scuola di campagna. Insegno i numeri ai figli di immigrati, ai sinti del campo nomadi, chiamati Rocky e Rambo per evitare i nomi del calendario e ai bambini accolti in un istituto che, senza ironia, si intitola ‘Sacra famiglia’. Da questo campo quadrato e senza versi niente sembra vicino, tranne invisibili recinti, invece una strada provinciale porta al centro, quello che vanta i migliori asili, la città dei bambini coi disegni di Natale per strada e i cassonetti dei rifiuti dipinti. Io intanto, ogni giorno, mi siedo su una panchina di marmo e tra le palpebre socchiuse li guardo correre come puntini colorati di una giostra. Allora li conto, conto un lungo elenco di oltraggi. Non sono questi i bambini che la città aveva previsto, eppure se mai crescerà qualcosa, verrà da loro, dal loro riso imparato a furia di esercizio… Di ognuno so la voce esile o acuta, che si affanna per farsi sentire in tutte le lingue parlate o forse imparo, perché queste voci tremano: perché sempre voci più forti le coprivano…
Di questi nove anni soprattutto mi stancava il motivo delle riunioni, di discorsi così regolari e inalterabili, da consentirmi di stendere il verbale di ogni collegio, annotando prima ancora di ascoltarli, senza sbagliare, tutti gli interventi. Negli anni ho raffinato esercizi di astrazione, non sono più in quelle stanze ed è la mia libertà . Porto lontano i pensieri e intanto traccio sul quaderno, con diligenza, quelle parole a nessuno rivolte. Lì dentro metto anche, per riguardarli, i biglietti e i disegni dei miei alunni. Me li lasciano di nascosto nelle tasche della giacca, perché a casa li trovi. Ormai lo so, ma c’è dolcezza in questa sorpresa rinnovata, da farmi pensare ancora di più che queste parole ogni mese pronunciate, non riguardano nessuno di loro, nessun bambino già nato e attingono piuttosto al frasario tecnico cresciuto nella scuola di questi anni per gioco di memoria, ma una memoria combinatoria che non custodisce nulla e si esercita soltanto nella recitazione dei suoi comandamenti. Un tale vuoto dovrebbe spaventare, spaventare il tempo impiegato ad imbastirlo, a preservarsi persino dalla possibilità di una domanda. In fondo le nostre sono oziose discussioni, senza nemmeno quella indolenza che allarga l’immaginazione. Sono oziose anche perché il consenso è presupposto iniziale, non accordo raggiunto. Si mette ai voti la conferma e indignano gli astenuti, il caso contrario. Ne soffrono di più proprio quei colleghi che nei fatti ai ragazzi sono stati vicini e, con più senso della realtà , si ritenevano soddisfatti di toglierli dalla strada, fargli fare un pasto caldo e magari insegnargli a leggere e scrivere. Ma nel verbale, le loro voci non compaiono. In perfetto, forzato accordo, la scuola promuove invece ascolto, differenza… sempre con possibilità - che dichiarata facoltativa è di fatto obbligatoria - di avvalersi dell’esperto. In genere sono esperti senza esperienza. Mi è sempre rimasto misterioso negli anni, il criterio con cui vengono scelti e il motivo della loro presenza, ma a volte mi sorprendo a provare, oltre al fastidio di subirli, una vaga ammirazione. Diffondono l’ovvio come fosse una scoperta. Da questo analfabetismo delle cose comuni non deriva però, né inquietudine, né stupore, bensì un disarmante entusiasmo. L’altro frequente punto all’ordine del giorno è l’amore per la lettura ed è strano che spesso ne decreti l’urgenza chi in un libro non si è mai perso. Io intanto penso alla mia classe. I figli dei sinti dormono in roulotte senza vetri, portano magliette leggere anche in inverno, e in aggiunta i segni della scabbia e i lividi dei padri ubriachi. Dovrei ‘educarli all’attenzione’ , loro hanno freddo. Ho facoltà obbligatoria di seguire un esperto che al campo non c’è mai stato, - la prima volta si è fatto subito fregare l’autoradio - e ignora che la maggioranza delle famiglie sta lì da oltre vent’anni e ‘l’essenza del nomadismo’, non sa nemmeno cosa sia. Al corso raccomanda di non chiedere ai bambini di usare la forchetta. Scorge in questo una forma di pericoloso colonialismo. Intanto a mensa, io li guardo ingoiare in un attimo la minestra quotidiana, gli passo il mio pranzo aggiustandogli tra le dita le posate e forse davvero li colonializzo, ma è il minore dei miei rimorsi. Al campo, poche famiglie vivono con le giostre, ancora meno col circo, il resto di espedienti. Il comune dà una piccola somma in rapporto al numero dei figli, che resta comunque esigua e solleva polemiche sugli aiuti immeritati a scapito di chi onestamente si guadagna il pane. Ultimamente è prevalso il tentativo di assegnare case coloniche per evitare l’accentramento, ma molti rifiutano di spostarsi da queste riserve, nonostante non manchino ostilità fortissime interne. L’unica traccia dei passati spostamenti sono le roulotte, senza ruote, impaludate… e a una tale gravità pochi si sottraggono, il campo è comunità senza scambi, cerchio chiuso se, a camminarci nelle giornate di pioggia, quando nessuna luce ne riscatta l’aspetto di disperata discarica, capisci che da lì non si esce. Eppure questa gente ha avuto un tempo, nel sangue, la libertà del viaggio. […]
Il testo completo in: http://www.nazioneindiana.com/2006/12/09/la-citta-dei-bambini
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