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Etica - Criteri condivisi e condivisibili (di Luigi Manconi)
15.12.2006
Su alcune controversie politico-morali
Le questioni che qui tratterò hanno, ognuna, uno spessore etico- giuridico assai robusto; e implicazioni particolarmente delicate e talvolta aggrovigliate. E, tuttavia, questo non impedisce che siano trattate sul piano del dibattito pubblico e della decisione politica, a partire da due criteri essenziali e condivisi (meglio: condivisibili).

Il primo criterio teorico-pratico è quello della «riduzione del danno»: ovvero la traduzione in termini politico-sociali di quel principio che, nella teologia e nella morale del cattolicesimo, è il «male minore». Il secondo criterio risiede nella consapevolezza della possibilità di fondare e argomentare in termini etici - non necessariamente di ispirazione religiosa - le opzioni su quei temi controversi e la loro trascrizione normativa.

Questo può aiutare a trovare soluzioni comuni su alcune questioni aperte.

1) Il confine tra cura doverosa e accanimento terapeutico è sottile, lo sappiamo: e spesso incerto.
Ma quando una terapia si rivela inequivocabilmente incapace di fermare il progredire devastante del male, di alleviare le sofferenze e di migliorare in qualche misura la qualità di vita del paziente, lì si ha accanimento terapeutico.
E, in presenza di una terapia ostinata e inutile, il codice deontologico dei medici, tutta la giurisprudenza e i protocolli scientifici sono chiari: quella terapia va sospesa. Come affermò l'allora cardinale Joseph Ratzinger, all'epoca Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, «la rinuncia all'accanimento terapeutico è anche moralmente legittima».
La vicenda di Piergiorgio Welby rientra in quella definizione? A mio avviso, sì. Senza quella macchina, senza il ventilatore polmonare, la sua vita si sarebbe conclusa da tempo e, come dire?, naturalmente.
L'intervento del ventilatore si presenta, pertanto, come una protesi, un sussidio meccanico, una strumentazione tecnologica, destinata a prolungare artificialmente la vita di Welby. Questo intervento - utile, e fin provvidenziale, come soluzione d'urgenza e terapia d'emergenza - in una situazione di cronicizzazione, si riduce a motivo di coercizione e afflizione e a fonte di sofferenze. Interrompere l'attività di quella macchina significa sospendere una terapia fattasi aggressiva e ostile.
Non c'è nulla di utilitaristico in questo ragionamento e non c'è alcuna svalutazione del significato della vita umana. Certo, quella vita può avere un senso e una qualità anche quando non risponde ai parametri economicistici, salutistici e "mondani" della mentalità corrente: ma un corpo che decade progressivamente a sede esclusiva di sofferenze rischia di negare qualunque senso alla sopravvivenza, riducendola a mera perpetuazione del dolore.
Sospendere quel trattamento sanitario è, dunque, ragionevole, pietoso, perfettamente coerente con la nostra Costituzione e, poi, con leggi, regolamenti e codici professionali: e risponde a un'istanza morale, facendosi carico della sofferenza del malato terminale, e delle «scelte tragiche» che quella sofferenza impone.

2) Le tabelle relative alle sostanze stupefacenti sono una questione esclusivamente di natura giuridica, medica, penale e sociale. Di conseguenza, con criteri giuridici, medici, penali e sociali vanno elaborate e valutate. Non certo in base a opzioni morali o religiose.
Tali opzioni sono importanti e contano, ma vanno fatte valere altrove e altrimenti rispetto agli ambiti e ai parametri che devono orientare la fissazione di quei limiti tabellari.
Tali limiti, all'interno della normativa vigente, hanno la sola funzione (approssimativa e imperfetta) di indicare un qualche accettabile confine tra detenzione a fini di uso personale e detenzione a fini di spaccio. A questo, e solo a questo, sono funzionali quei limiti.
Fissare quelle soglie massime risponde esclusivamente a un'esigenza di efficacia. Ovvero evitare il carcere, e ciò che comporta, a chi non è spacciatore: così come dichiara di volere la legislazione vigente (Fini-Giovanardi compresa).
Le scelte morali si collocano altrove, e sono legittime e preziose, ma non devono interferire con quei limiti tabellari. Fissare, poniamo, a 5 o a 10 quel tetto non significa disapprovare (se il limite è a 5) o approvare (se è a 10) il consumo di sostanze. Significa permettere che un certo numero di consumatori (se il limite è più alto) o un numero ancora superiore (se il limite è più basso) entri in carcere - contro la ratio della stessa legge, che pure contestiamo.
Dopo di che, superato o ridotto ai minimi termini il rischio detentivo per i consumatori di sostanze, si porrà il problema di elaborare intelligenti e razionali politiche di dissuasione dal consumo: tanto più efficaci quanto più saranno dirette, contemporaneamente, nei confronti delle cosiddette droghe legali (alcol e tabacco). A questo punto, ciascuno farà valere le proprie opzioni morali, le proprie strategie educative, la propria ispirazione anche religiosa.

3) A proposito di coppie di fatto, il punto cruciale mi sembra il seguente: alla famiglia eterosessuale fondata sul matrimonio si riconosce un progetto, una condivisione di aspettative e di valori e, dunque, una costituzione morale. Cosa, quest'ultima, che si nega alle altre forme di convivenza e che colloca queste, pertanto, in una condizione di inferiorità: innanzitutto morale. E infatti, secondo i sostenitori in buona fede dell'unicità della famiglia tradizionale, le «altre famiglie» possono essere tollerate e, in alcuni casi e per certe prerogative, tutelate: senza riconoscere loro, però, la piena dignità di relazione, dotata di una intenzionalità morale e di un progetto antropologico-sociale. E, ancor prima, senza riconoscerle come famiglie (e, addirittura, senza dirle famiglie). Questo sia nel caso delle famiglie di fatto a composizione eterosessuale, sia nel caso delle unioni omosessuali. Tanto la prima tipologia quanto la seconda vengono considerate come espressione, se non di disordine, di irregolarità (sociale e morale): e, dunque, suscettibili - al più - di venire tollerate (perché diventate fenomeno statisticamente rilevante).
Ma questo non è sufficiente. Non lo è, in primo luogo, rispetto alle trasformazioni avvenute (e da decenni!) nella società italiana; trasformazioni culturali e sociali, che hanno determinato il passaggio da una tipologia di famiglia a una pluralità di forme relazionali e coniugali. Così che - oggi, in Italia - le «nuove famiglie» riguardano milioni di persone e costituiscono il 17% di tutte le aggregazioni familiari.
Ma la tolleranza risulta insufficiente per una seconda (ancora più importante) ragione: perché non tiene conto della grande «trasformazione morale» in atto. Ed è il punto che più mi preme sottolineare.
Quella trasformazione consiste, sostanzialmente, in questo: una gran parte delle famiglie di fatto (eterosessuali e omosessuali) fonda la propria scelta relazionale e coniugale su principi morali. Che non sono, certo, quelli della «morale di maggioranza» (di derivazione religioso-cattolica): ma che, comunque, chiedono riconoscimento e domandano tutela.
A ben vedere, poi, in termini giuridici, i Pacs si limitano a prevedere l'allargamento del numero di cittadini garantiti da alcuni diritti: che sono una parte di quelli attualmente riconosciuti a due persone che contraggono matrimonio. Chi promuove una visione esclusivizzante di quei diritti («Vuoi usufruirne? sposati!») fraintende la sostanza stessa delle libertà cui essi sono preposti.
Quella sostanza è positiva e tende a essere universale e generale. Se è vero che l'esercizio di un diritto non può condurre alla violazione di un altro diritto (da qui il principio della «coesistenza dei diritti»), è altresì vero che - come scrive Giuseppe Capograssi - i diritti «sono tra di loro solidali, fanno insieme sistema; nessuno può essere sacrificato col pretesto di arrivare, mediante questo sacrificio, all'appagamento degli altri». Ecco, esemplarmente, un caso in cui si rispettano entrambe le condizioni: riconoscere diritti ai cittadini impegnati in una convivenza duratura e solidale non minaccia i diritti di alcun altro. Per contro, riconoscere quei diritti vuol dire promuovere quel principio di mutualità, fare sistema, ridurre le disparità, garantire tutela e possibilità di convivenza: oltre che tra due persone, tra i cittadini tutti.
Rifiutare ciò è, a mio avviso, un errore grave: significa ignorare domande e comportamenti assai diffusi e significa accogliere una visione della società italiana, propria di alcuni settori più malinconicamente conservatori delle gerarchie ecclesiastiche: ovvero la società italiana come un deserto etico, dove resiste - assediata e clamans - la morale cattolica, quale solo presidio di valori forti.
Le cose non stanno affatto così. La crisi della «morale di maggioranza» (che fu di maggioranza) non ha causato un vuoto di valori e di principi - il deserto dell'etica, appunto - ma ha prodotto, al contrario, un pieno di morali. Al plurale: morali di gruppo e di comunità, di subcultura e di tendenza, di minoranze e di identità. E tuttavia morali. Parziali e provvisorie, ma qualificanti e dirimenti per coloro che vi si riconoscono e meritevoli di rispetto e di tutela in una società pluralista.

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