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Lettera di fine anno
1.01.2007
Parlare di guerra, di fame, di immigrazione, di razzismo, a fine anno, può sembrare banale e scontato. Non parlarne, è solo l’ennesimo alibi per non fare niente. Quella che segue è la lettera di un insegnante siciliano, trapiantato a Milano, Tommaso Meldolesi. Grande amico di Girodivite.

Carissimi,

Siamo arrivati alla fine di quest’anno, a tratti molto triste e in ragione di questo, anche molto, molto faticoso. Ho fatto tantissime cose in ambito scolastico, e non solo. Ho lavorato come un pazzo in questi ultimi mesi e anche per questo, come tanti mi sento una pezza.

Un nuovo anno sta per cominciare, e spero per me, ma anche per tutti, sia un po’ meglio del precedente! Bisogna fermarsi sulle cose positive che ci sono e che ci sono state in questi mesi. Anche se con molta fatica, e con molte contraddizioni, l’Italia sta provando a recuperare una situazione che, se sotto l’aspetto economico, non mi sento di giudicare, l’aveva vista per alcuni anni, precipitare in un baratro senza fondo, per quello culturale!

Una missione molto ardua, con un nuovo governo per molti versi criticabile, e che dovrà fare i conti con un paese in cerca di una sua identità ed i problemi di una nuova forma di povertà, riscontrabile in una fetta sempre più ampia della popolazione, anche di una città come Milano, che si trascina ancora oggi, l’illusione di destino diverso di benessere e sviluppo, non sempre corrispondente alla realtà.

Una nuova povertà che produce gli effetti devastanti riscontrabili su chi, potendo contare su pochi mezzi, subisce le conseguenze degli episodi di razzismo ed intolleranza, dove il divario culturale e a volte religioso, diventa l’alibi per nascondere il disagio sociale, occultato ma manifestato nelle periferie delle nostre grandi città. La perdita di certezze, un futuro incerto sfocia in episodi di bullismo, dove il debole è destinato a soccombere, oggetto di sdegno; bersagliato da violenze gratuite che creano altre illusioni, dove distinguere la vittima dal carnefice, è sempre più difficile.

Si distoglie l’attenzione dalle cose reali e di maggiore importanza, per rifugiarsi in un mondo virtuale di appartenenza. Civiltà dell’immagine del non pensare, direbbero i nuovi precettori. Ma la realtà è pure più grave: li vedo davanti a me, seduti sui loro banchi, questi giovanissimi, crescere da soli, senza punti di riferimento, che mi guardano quasi a pretendere risposte che non so dare più neanche a me stesso.

E allora mi chiedo ancora, cosa può fare la scuola ed io che ne faccio parte? Cosa possono fare le istituzioni? Molti di loro crescono con un grappolo di rabbia e di violenza repressa dentro. Ed anche gli esempi degli adulti, complicano la situazione: la gente fa uso spropositato di violenta ed ormai si uccide per futili motivi. Per un nulla, si stermina la propria famiglia, o si elimina chi può nuocere alla nostra folle utopia di sicurezza. Anche quando qualcuno finisce nelle mani della giustizia, le risposte dei sanzionatori sono evasive e contraddittorie. Risposte che la società civile pretende di avere, senza alcun tentennamento. Una società che stenta a capire, che non ha voglia di altre incertezze. E fugge, fugge a ritmi frenetici. Via, sempre più lontano. Spesso, da sé stessa.

È la mia esperienza di insegnante di periferia, che mi fa vedere ogni giorno queste crude realtà. È un’occasione perduta, per chi come me, si è messo in testa di fare l’educatore. È difficile trovare comprensione e sostegno, anche negli altri colleghi. Di recente, uno di loro ha affermato che secondo lui, per certi ragazzi, non è saggio scolarizzarli. È tempo inutile. Come il suo, che ha scelto di fare questo mestiere. Mi ritornano alla mente i due ragazzini turchi ai quali cerco di trasmettere un po’ di umanità, oltre che a solo e scontate nozioni didattiche.

Penso a tutti quei bambini che giungono nel nostro paese, che ci guardano inebetiti perché non comprendono la nostra lingua e penso alla mia impotenza davanti alla loro voglia di comunicazione, negata da uno stupido ed anacronistico nazionalismo. E penso a tutto il Medio Oriente, al Libano, ai civili ammazzati, ai bambini a piedi nudi nel fango. Penso alla "civiltà" del mio mondo occidentale, al turismo sessuale, agli abusi su quelle bambine sorridenti delle zone più depresse del mondo. E penso alle guerre dimenticate del mondo, dove si continua a morire. Penso alla Liberia, all’Uganda, al Sudan, al Kashmir, all’Algeria, al Nepal. Alle guerre passate, a quelle recenti. A quelle che non finiranno mai, fino a quando un interesse economico le giustificherà.

Ed ho la sensazione che a nessuno importi veramente niente. A chi potrebbe fare qualcosa e a chi si illude che siano troppo lontane, per occuparsene. Penso alle multinazionali che occupano economicamente e culturalmente il sud del mondo. E mi appaiono senza fine, i miliardi di poveri che crescono, vivono e muoiono, mentre un quarto del pianeta gioca a Risiko, gettando gli avanzi nella spazzatura.

Indifferenza. Il vero cancro della società moderna. che uccide più delle guerre. L’indifferenza dei ragazzi che provo ad educare per un mondo migliore. L’indifferenza dell’uomo, che non vede, che non sente, che non commenta ciò che non gli appartiene. Malgrado tutto, proviamo ad inventariare ciò che di buono riusciamo ad estrapolare dal disgusto. È morto il dittatore Pinochet, che avremmo preferito giudicare in terra che consolarci della giustizia divina.

E poi, c’è questa solita speranza, che molte volte ci frega, ma spesso ci spinge in avanti. Si adagia sul nostro 31 dicembre per rinascere a nuova vita il 1° dell’anno. E pazienza, se sarà bistrattata, criticata e distrutta dalla realtà dei successivi dodici mesi. Ed allora, speriamo perché questo ancora ci è concesso. Ed auguriamoci un 2007 migliore. Proviamo a crederci ancora una volta.

Io, precettore deluso e visionario. Voi, qualsiasi cosa facciate. Proviamo a trasformare questo mondo, chissà che a crederci ancora, possa servire a qualcosa.

Fonte: http://www.girodivite.it/Lettera-di-fine-anno.html

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