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Il silenzio dei teologi (Paolo Prodi in www.unita.it)
8.01.2007
Uno dei detti più rappresentativi della politica moderna, ripreso da grandi pensatori come Carl Schmitt, è: «Tacete o teologi sulle cose per le quali non siete competenti» ("silete theologi in munere alieno"): questa frase è una rappresentazione molto acuta del processo della laicizzazione della politica negli ultimi secoli.

Per poter aprire la strada alla libertà, alla democrazia, alla divisione dei poteri la politica si è liberata dalla teologia, si è de- ideologizzata divenendo tecnica di legislazione e di governo con un processo analogo a ciò che è avvenuto per le scienze dell'uomo e della natura nel corso della modernità.

Il problema è che ora assistiamo a due fenomeni abbastanza strani e nuovi per l'Occidente: i politici si sono fatti teologi e parlano sparlano dei supremi principi, della vita e della morte; la teologia in senso proprio, come discorso su Dio e sulle cose ultime, non parla più e non se ne sente la voce ( o si sente una voce molto flebile che commenta in modo catechistico o divulgativo la voce del magistero romano). Il primo fenomeno, della teologizzazione della politica, è sotto gli occhi di tutti. Non si tratta soltanto degli "atei devoti": essi rappresentano la punta più avanzata di un vasto movimento che in Italia coinvolge praticamente tutti i partiti: è la politica tutta in qualche modo che, di fronte alle grandi tematiche emergenti dalla globalizzazione e dalle nuove tecnologie che permettono una manipolazione mai prima sperimentata dell'uomo e della natura, tende a proporsi, particolarmente nei campi della bioetica come una specie di nuova teologia o ideologia relativa agli ultimi "perché" circa la vita e della morte. Abbiamo non soltanto l'emergere dei nuovi fondamentalismi a difesa dei grandi valori dell'Occidente ma anche l'emergere, dopo la crisi delle grandi ideologie, di numerose chiese o sette secolarizzate, ciascuna con un credo, un culto, una liturgia particolare: oltre ai nostalgici delle vecchie ideologie abbiamo pacifisti, riformisti, ambientalisti, devoti delle nuove biotecnologie, neo-liberisti ecc. È in qualche modo un fenomeno parallelo a quanto è avvenuto nel campo religioso vero e proprio con la crisi delle grandi chiese tradizionali e il moltiplicarsi dei movimenti settari e spiritualisti basati su pseudoprofeti o capi carismatici. Anche in precedenti interventi ho cercato di mostrare come questa ideologizzazione della politica con il richiamo diretto e continuo dei partiti ai grandi temi etici del bene e del male, porta alla fine della politica dell'Occidente come scienza e tecnica, come è stata costruita negli ultimi secoli, alla crisi stessa dello Stato di diritto, della libertà e della democrazia: queste conquiste sono infatti fondate sulla laicità come distinzione del piano teologico da quello politico e su un doppio ordine di norme, quello etico e quello positivo statale, del peccato come colpa contro Dio e del reato disobbedienza alla legge degli uomini. Solo limitando i propri scopi e riconoscendo il dualismo che pone al di fuori dei propri confini il problema del bene e del male, della salvezza, la politica è diventata davvero laica. Meno noto è il secondo dei fenomeni che ho sopra enunciato, il silenzio dei teologi. Effettivamente la teologia non è presente nel panorama culturale italiano, se si eccettua qualche intervento del cardinale Carlo Maria Martini, qualche benemerita divulgazione nella rubrica «Uomini e profeti» del terzo canale della Radio o simili, qualche casa editrice ai margini tra il circuito cattolico e quello laico. Ernesto Galli della Loggia ha fornito una sua spiegazione di questo silenzio sul Corriere del 20 dicembre: alla forte, o troppo forte, presenza dei cattolici in politica non corrisponde una parallela presenza dei cattolici nel mondo culturale per la loro riluttanza a far trasparire in pubblico le proprie convinzioni personali e per la loro eccessiva politicizzazione. Questa spiegazione mi sembra generica e fuorviante: in realtà siamo di fronte a una vera crisi del pensiero religioso cattolico e si può dire anche cristiano in generale - considerando le aree protestanti- riformate e quelle ortodosse - che ha motivazioni storiche molto precise. Dopo il Concilio Vaticano II la cultura cristiana - e con essa la ricerca teologica - è infatti entrata in una crisi dalla quale non sembra essersi ancora ripresa tranne per qualche voce isolata. Se la parte più vivace e radicale della "Chiesa di base" rimase allora attratta dalla cosiddetta "teologia della liberazione" cedendo alla tentazione perenne di costruire un regno di Dio in questo mondo, (con questo quindi negando la stessa funzione storica della Chiesa), la gerarchia romana ha reagito nel suo complesso ai possibili sbandamenti chiudendosi in difesa e riducendo il pensiero religioso ad una semplice esposizione catechistica o pastorale del magistero. Abbiamo tante teologie per ogni realtà terrena ma non abbiamo più un discorso teologico. Gli stessi difensori ad oltranza del Vaticano II si sono chiusi a poco a poco in una difesa passiva dei testi conciliari senza accorgersi che se grande era stato il significato del Vaticano II come superamento dell'età della controriforma e apertura alla modernità, ciò avveniva proprio nello stesso tempo in cui la modernità stessa finiva e si annunciavano nuovi tempi e nuovi problemi, imprevedibili anche pochi anni prima, negli anni del Concilio. I pochissimi tentativi, condividibili o no, di uscire da questa spirale sono ben conosciuti e possono essere sintetizzati anche nei due diversi cammini dei colleghi teologi dell'Università di Münster Joseph Ratzinger e Hans Küng. L'ultimo documento in cui si è difesa la necessità e la creatività della teologia è stato in Italia il cosiddetto «Manifesto dei 63 teologi» del 15 maggio 1989 nel quale, sottolineando la «varietà dei modi di intendere e di vivere la fede che lo Spirito suscita nelle diverse comunità» si indicava che il compito dei teologi non si svolge solo «divulgando l'insegnamento del magistero e approfondendo le ragioni che ne giustificano le prese di posizione» ma, piuttosto, «quando raccolgono e propongono le domande nuove (...) o quando percorrono (...) sentieri inesplorati».

In realtà il silenzio dei teologi, delle facoltà di teologia negli ultimi 20 anni è diventato assordante e la crisi è evidente anche ad occhio nudo sia in Italia che negli altri paesi cattolici ma anche in quelli protestanti e riformati non soltanto sul piano delle teologia teoretica o dogmatica ma anche della teologia biblica, dello studio dei Padri della Chiesa e della stessa storia della Chiesa: quello che un tempo era il nucleo centrale della formazione del sacerdote viene ora marginalizzato rispetto agli insegnamenti pratici di pastorale e delle teologie applicate alle diverse realtà antropologiche: del matrimonio, della sanità, del lavoro ecc. Non si tratta di una cosa che riguarda soltanto pochi intellettuali: pensiamo ai riflessi che questo ha avuto nella formazione del clero e nella selezione dei vescovi ma anche nell'insegnamento di religione nelle scuole. Certamente sarebbe auspicabile un insegnamento di religione condotto in maniera a-confessionale, storico-comparata, superando lo schema concordatario: ma pensiamo oltretutto che l'insegnamento come viene condotto attualmente nella parte maggiore dei casi danneggi anche la formazione del senso religioso del popolo italiano. Si tende a ripetere formule senza tempo o a parlare soltanto dei problemi del sesso e della morale spicciola senza una presenza della Bibbia e della tradizione cristiana, dai Padri della Chiesa ad oggi: la tradizione in senso forte, passata dagli Apostoli sino a noi, da generazione in generazione, come diceva il concilio di Trento.

Anche la religione viene presentata ai giovani senza storia. Ma se l'assenza della storia è micidiale in generale per la società, essa diventa mortale per la Chiesa perché senza la tradizione lo stesso senso della Chiesa si spegne. Non sono discorsi riservati alle sagrestie. Una politica laica ha bisogno per vivere anche di una teologia che faccia il suo mestiere.

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